Socrate: «Perché gli uni, come tu hai detto, hanno sempre del tempo a loro disposizione, e i loro discorsi li fanno in pace, con agio; e, come noi ora, per la terza volta, passiamoda un discorso ad un altro, così anche essi, ove un argomento nuovo, affacciandosi d’improvviso alla loro mente, come ora alla nostra, piaccia loro più di quello che hanno a mano; e di ragionare più o meno a lungo non si preoccupano punto, purché imbrocchino il vero. Quegli altri invece parlano sempre come gente a cui manchi il tempo – giacché gl’incalza l’acqua che scorre “nella clepsidra” – e la parte avversa non li lascia ragionare di ciò che desiderano, ma sta loro addosso, brandendo la legge inflessibile e l’atto d’accusa di cui si dà lettura, che segnano i confini da’ quali non è lecito uscire».
Con poche, significative parole Socrate delinea la differenza, anzi, l’antiteticità tra il rètore sofista e il filosofo; sono separati da scelte opposte, in primo luogo esistenziali. Il filosofo è estraneo alla città e all’agone politico che la contraddistingue, è alla ricerca della verità e quando viene giudicato con il metro del comune sentire fa la stessa figura di Talete davanti alla schiava tracia, suscitandone il riso perché mentre è intento a guardare in cielo cade in un pozzo. Il filosofo è impegnato nella ricerca sull’essenza dell’uomo, su come gli uomini debbano vivere e quali sono le cose che meritano di essere conosciute. Il filosofo deve quindi fuggire la città e la comunità degli uomini per assomigliare il più possibile a dio, diventare cioè giusto e sapiente. Non ci potrebbe essere distanza più grande dalla tesi protagorea, non è l’uomo a essere misura di tutte le cose, ma dio, e la giustizia e la sapienza non possono essere separate l’una dall’altra. Questa parte del dialogo, che non casualmente occupa un posto centrale, fa chiarezza sul legame che esiste, secondo Platone, tra scienza e sapienza, tra sapere pratico e sapere teorico e si comprende come la ricerca in campo morale ed etico abbia le stesse caratteristiche della conoscenza scientifica e tecnica.
Platone, La verità, p.XII
Con poche, significative parole Socrate delinea la differenza, anzi, l’antiteticità tra il rètore sofista e il filosofo; sono separati da scelte opposte, in primo luogo esistenziali. Il filosofo è estraneo alla città e all’agone politico che la contraddistingue, è alla ricerca della verità e quando viene giudicato con il metro del comune sentire fa la stessa figura di Talete davanti alla schiava tracia, suscitandone il riso perché mentre è intento a guardare in cielo cade in un pozzo. Il filosofo è impegnato nella ricerca sull’essenza dell’uomo, su come gli uomini debbano vivere e quali sono le cose che meritano di essere conosciute. Il filosofo deve quindi fuggire la città e la comunità degli uomini per assomigliare il più possibile a dio, diventare cioè giusto e sapiente. Non ci potrebbe essere distanza più grande dalla tesi protagorea, non è l’uomo a essere misura di tutte le cose, ma dio, e la giustizia e la sapienza non possono essere separate l’una dall’altra. Questa parte del dialogo, che non casualmente occupa un posto centrale, fa chiarezza sul legame che esiste, secondo Platone, tra scienza e sapienza, tra sapere pratico e sapere teorico e si comprende come la ricerca in campo morale ed etico abbia le stesse caratteristiche della conoscenza scientifica e tecnica.
Platone, La verità, p.XII
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