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05 gennaio 2008

Giordano Bruno - seconda parte

Insomma Bruno è così. Un po' genio e un po' millantatore, che a volte davvero arriva dove altri non riescono, con poco senso della misura e molto di sé, che probabilmente nel suo secondo soggiorno parigino ha l'intenzione sincera di rientrare nei ranghi della chiesa cercando conciliare la sua filosofia con i dogmi e l'autoritarismo.

Nel 1586 da Parigi scappa in Germania, gli scherani del Guisa sono un argomento molto convincente. A Wittenberg viene accolto con grande calore e ricomincia a insegnare. Almeno finchè comandano i luterani, perchè quando al potere vanno i calvinisti Bruno deve fare le valige un'altra volta. In questo periodo nelle sue lezioni - e poi nelle opere a stampa - approfondisce il lullismo. Opere un po' noiose, diciamo la verità. Costretto a partire va a Praga. A Praga c'è Rodolfo II, imperatore del Sacro Romano Impero, appassionato studioso di magia, alchimia, arte della memoria, che tiene a corte maghi, astrologi, alchimisti, tutti da lui impegnati alla ricerca della pietra filosofale. In questa occasione Bruno non è particolarmente fortunato, astronomo di corte è proprio Mordente, il matematico. E Bruno, sempre per non farsi riconoscere, dedica al re un'opera dal titolo Articuli adversus mathematicos. Un'opera strana, in cui non ci si capisce niente davvero, al punto che la Yates propone l'ipotesi che sia scritta in un qualche linguaggio cifrato. (la mia è: pazzo forse, ma scemo no).

Rodolfo II gli molla qualche soldo, ma niente impiego fisso a corte. E così Bruno riparte. Riparte per Brunswick, dove da pochissimi anni è attiva una università. Appena arrivato gli danno da tenere l'orazione funebre per il duca morto in quei giorni. Si ripete una storia già vista, quando arriva in un posto di solito Bruno è accolto favorevolmente, poi scrive o dice qualcosa che irrita e deve andarsene. A Brunswick è particolarmente anticattolico e antipapista. Ora, il duca appena morto era protestante, ma il figlio che eredita il ducato è cattolico, almeno ufficialmente. Tanto per dire che, al contrario di Campanella, Bruno non ha il minimo senso dell'opportunità e del potere, se non di quello della parola, nel quale è un maestro. In questo periodo scrive e pubblica poemi in latino, e l'argomento principale è la magia, ispiratore Lucrezio. Queste opere vengono pubblicate a Francoforte, dove si trasferisce per qualche tempo. Mentre è intento a questo lavoro conosce un tipo un po' strano, Hainzell, che ha una proprietà in Svizzera in cui ospita maghi, astrologhi e compagnia varia. Bruno vive a casa di Hainzell per qualche mese e gli dedica l'ultima opera che pubblica il De imaginum, signorum et idearum compositizione. Già solo il titolo sta a indicare che l'opera viene considerata da Bruno stesso molto importante.

Qui si apre l'ultimo capitolo della vita di Bruno. Le sue opere sono vendute in tutta Europa e a Venezia un suo assiduo lettore è un nobile veneziano, Giovanni Mocenigo, che chiede al suo libraio - Giovanni Battista Ciocco - se conosce Bruno, perchè vuole imparare da lui l'arte della memoria.

Ciocco, che da bravo libraio frequentava le fiere del libro di Francoforte, conosce Bruno in occasione di uno di questi viaggi e gli trasmette l'invito di Mocenigo. E Bruno torna in Italia, fregandose come sempre di frontiere, di cattolici, di protestanti, di guerre di religione e di odi accademici o religiosi. Sembra davvero convinto, nonostante gli spostamenti a cui è costretto, alcuni vere e proprie fughe, che la sua arte, basata sulla magia erotica, sia passaporto sufficiente in un'Europa dilaniata dagli odi. In questo forse sta la geniale ingenuità di Giordano Bruno, nella convinzione che il vero sapere possa prevalere, che possa essere riconosciuto e trionfare sulle divisioni e sul potere. Il sapiente è il vero dominatore della natura e dell'animo degli uomini. E cerca di cogliere tutte le occasioni per propagandare la sua dottrina. Non cambia ciò che pensa e dice a seconda delle circostanze, ma cerca di piegare le varie situazioni al suo fine. A Venezia addirittura frequenta un domenicano, vecchia conoscenza al tempo della gioventù napoletana, e lo informa che sta scrivendo un libro da presentare al papa per ottenere un insegnamento universitario. Penso alla faccia sbalordita che deve aver fatto costui davanti a questo proposito.

D'altro canto Bruno si riteneva un riformatore religioso, anzi un vero e proprio messia. Diciamo che lo animava una sorta di delirio di onnipotenza, che lo spinge, visto il mutamento della situazione politica a cercare di riavvicinarsi alla chiesa.

Cosa era cambiato nel frattempo? In primo luogo si era imposto all'Europa Enrico III di Navarra, (diventa Enrico IV quando sale al trono di Francia) che aveva manifestato il proposito di convertirsi al cattolicesimo. E Bruno degli affari di Enrico di Navarra era al corrente, sembra nei minimi particolari.
Il suo corrispondente da Parigi, Piero Del Bene, era ben introdotto a corte e lo tiene informato su ciò che vi accade e su quello che vi si progetta. Non a caso gli inquisitori, quando interrogano - sotto tortura, non lo scordiamo - Bruno, sono molto interessati a quello che sa intorno ai progetti e alle mire di Enrico.

Comunque sia, Bruno si aspetta grandi cose da Enrico di Navarra. E pare certo di far parte di progetti grandiosi. E probabilmente torna in Italia sopratutto per questi. Sta a Venezia, e poi a Padova, dove detta il De vinculis in genere, dove tratta compiutamente dei legami magici tra le cose, fondati sull'amore e sull'erotismo.

Passa un po' di tempo, insomma, prima di trasferirsi a casa di Giovanni Mocenigo che dopo qualche mese lo denuncia all'Inquisizione. A dire il vero Bruno si era accorto che tirava brutta aria, e progettava di tornare a Francoforte, ma il nobile veneziano ne prevenne la fuga chiudendolo a chiave in una stanza prima di chiamare le guardie.

Per Bruno saranno otto anni di galera, di interrogatori, di torture.
Viene imprigionato il 26 maggio 1592 e sale al rogo il 17 febbraio 1600.

Bruno comincia sotto interrogatorio ad esporre la sua filosofia, l'idea dell'infinitezza dell'universo, del panteismo, dell'amore che tiene tutte le cose. Non rinnega la sua incredulità nei confronti dell'incarnazione di Cristo. Può credere nella potenza divina dice, ma certo non nell'idea che dio si sia fatto uomo. Alla fine del processo veneziano Bruno ritratta tutte le eresie di cui è accusato, e si affida ai giudici. Cerca di evitare il trasferimento a Roma, probabilmente, ma non ci riesce. Secondo me Roberto Bellarmino ci diventa matto con Bruno, che ai processi con brillanti orazioni ricusa tutte le eresie che è costretto a professare sotto tortura, e lascia senpre gli accusatori spiazzati.

Alla fine Bellarmino, dalla lettura delle opere di Bruno, tira fuori otto (otto? su migliaia di pagine?) proposizioni eretiche e gli chiede di abiurarle. Bruno sembra acconsentire. Ma poi ritratta le ritrattazioni, sostenendo di non aver mai scritto niente di eretico, e che sono gli inquisitori che non comprendono ciò che egli scrive, e che interpretano in maniera erronea le sue affermazioni. (una linea di condotta che ha fatto scuola direi).

Ma è finita e Bruno lo sa. E si prende l'ultima vittoria che può cogliere: non rinnega nulla della sua opera e di sé.

Dichiarato eretico impenitente viene condannato a morte e arso vivo in Campo de' Fiori a Roma il 17 febbraio 1600.

puntate precedenti:
Giordano Bruno - prima parte
Tommaso Campanella
Pico della Mirandola

04 gennaio 2008

Giordano Bruno - prima parte

Era un gran rompiballe Giordano Bruno, è innegabile. E anche saccente, uno di quelli: "so tutto io e voi non capite niente". Va detto che talvolta aveva anche ragione a pensarlo. E a dirlo. Talvolta. Agli inquisitori che lo interrogano sotto tortura Bruno si presenta così:
"Io ho nome Giordano della famiglia di Bruni, della città de Nola vicino a Napoli dodeci miglia, nato ed allevato in quella città, e la professione mia è stata ed è di lettere e d'ogni scienza". Insomma che non equivocassero, gli sgherri del potere: lui è un intellettuale.

Si presenta sempre un po' sfigato, senza una lira e odiato dalla folla, ma pare fosse un gaudente, e soprattutto un grande estimatore delle grazie femminili.

Ma andiamo per ordine. Nasce a Nola nel 1548, e nel 1562 si trasferisce a Napoli, dove tre anni dopo entra in convento. Il convento di San Domenico Maggiore (quello in cui è sepolto Tommaso d'Aquino, tanto per dire). Ordinato sacerdote nel 1573, nel 1575 si laurea in teologia e già non sopporta più Aristotele. Legge Telesio, Paracelso, i testi ermetici, Lucrezio.
E infatti nel 1576 scappa da Napoli a Roma, accusato di eresia, ma anche a Roma sono guai, e allora si sposta in Liguria, a Savona. Tra il 1576 e il 1577 visita più o meno tutta l'Italia del nord: Torino, Venezia, Padova, Brescia, Bergamo.
Ma deve mollare il colpo, l'inquisizione arriva ovunque, e Bruno comincia a vagabondare per l' Europa.

Ha un capitale da spendere: è un ex frate domenicano versato nell'arte della memoria e nella magia, in un periodo - il 1500 - nel quale i domenicani partenopei sono famosi per la loro irrequietezza e le loro arti.

E Bruno non fa mistero di poter insegnare arti misteriose e magiche, provenienti da una sapienza antica, più antica del cristianesimo, della grecia, degli ebrei. Anzi, si presenta come un campione di quella sapienza, dalla quale tutte le altre derivano:
la sapienza egizia di Ermete Trismegisto.

Il 1578 lo vede in Francia, a Chambéry, poi a Ginevra, dove aderisce al calvinismo.

Che non gli gusta per nulla, sentimento per altro ricambiato, nemmeno i calvinisti sono entusiasti di lui. Si sposta a Tolosa, deve insegna per due anni filosofia.

Nel 1581 è a Parigi e tiene una serie di lezioni pubbliche che lo mettono in luce, tanto che viene chiamato dal re, Enrico III. Intorno a Bruno nasce la fama di mago, anche per via di due trattati sull'arte della memoria che pubblica in quel periodo: il De umbris idearum, giustappunto dedicato al re, e il Cantus Circaeus.
(solo il De umbris idearum più che un post meriterebbe un libro se Frances Yates non avesse già scritto Giordano Bruno e la tradizione ermetica).

Saccheggia a piene mani Ficino, aiutato in questo dal fatto che si sbarazza del cristianesimo senza grandi problemi, ritenendo i testi ermetici ed egiziani di gran lunga superiori.

Nel frattempo qualche sua opera passa oltremanica, e viene pubblicata a Londra. Bruno la segue, e i contatti a corte non sembrano così millantati se è vero che ha una lettera di presentazione del re per accreditarsi presso l'ambasciatore francese; e non solo si accredita, ma vive a casa sua per tutto il tempo che si ferma in Inghilterra. E c'è chi pensa, e dice, che Bruno in realtà sia una spia in missione per il re di Francia.
Di certo c'è che l'ambasciatore inglese a Parigi - Harry Cobham - si prende la briga di avvisare in patria che sta arrivando Bruno:
"Intende venire in Inghilterra il dottor Giordano Bruno, Nolano, professore di filosofia, la cui religione non posso approvare"

Non aggiunge "statev accuort" solo per via della flemma britannica.

Per altro, trattandosi di Bruno, la frase "la cui religione non posso approvare" suscita almeno un sorriso. Ex domenicano, ex calvinista, attualmente mago egizio, a quale religione si riferisce l'ambasciatore?

Intanto, visto che gli sta in casa, Bruno dedica un paio di opere all'ambasciatore francese. Ma visto che non si butta niente e che scrivere è faticoso, un bel po' di pagine sono riciclate. Così ne approfitta per ristampare il Cantus Circaeus.

Ma non illudetevi, Bruno scrive, e parecchio (1).


E' un grande pubblicitario Bruno, un profondo conoscitore dell'animo umano e delle tecniche utili per manipolarlo. E se non credete a me, leggete Eros e magia di Couliano, che di Bruno scrive:
"Al suo massimo grado di sviluppo, raggiunto nell'opera di Giordano Bruno, la magia è un metodo di controllo dell'individuo e delle masse basato su una profonda conoscenza delle pulsioni erotiche individuali e collettive [...] Il mago del Rinascimento è, si, psicoanalista e profeta, ma anticipa anche professioni moderne come quelle di capo delle relazioni pubbliche, propagandista, spia, uomo politico, censore, direttore dei mezzi di comunicazione di massa, agente pubblicitario."

Comunque sia Bruno mira ad Oxford. E per presentarsi, dopo la dedica all'ambasciatore, scrive nell'introduzione una lettera indirizzata al Vice Cancelliere dell'università, dove - tra le la altre cose - si presenta così:

"[...] professore di una sapienza più pura e innocua (altro che mago cattivo), noto nelle migliori accademie europee (e a questo punto come fai, tu che sei vice cancelliere a Oxford a dire "chi cazzo sei?" ), filosofo di gran seguito (meglio ribadire, un cv è un cv) domatore dell'ignoranza presentuosa e recalcitrante (avete bisogno di un esperto in didattica per caso da voi a Oxford?) che non preferisce gli Italiani ai Britanni (politically correct anche) i maschi alle femmine (probabilmente anche allora nei college inglesi c'erano simpatiche usanze nei confronti degli allievi e Bruno ci tiene a chiarire che non intende entrare nella riserva di caccia di nessuno) che è odiato dai propagatori e dagli ipocriti, ma ricercato dagli onesti e dagli studiosi, e il cui genio è applaudito dai più nobili (insomma se non mi prendete siete ignoranti, presuntuosi, bugiardi e meschini).

Comunque sia, Bruno a Oxford ci va. E i resoconti non collimano tanto, diciamo.

Lui racconta di averli stesi di brutto, e di essere stato trattato malissimo perchè li aveva messi in buca più di una volta. E sottolinea la sua pazienza davanti alle ingiurie.

George Abbott, non proprio l'ultimo arrivato, fa l'arcivescono a Canterbury e non nel tempo libero (anche se il sospetto è forte), invece scrive che Bruno viene beccato in pieno plagio del De vita coelitus comparanda di Marsilio Ficino, e che alla terza lezione, avvisato di essere stato scoperto, manda tutto a monte. Però lo offende, lo prende in giro per il suo aspetto, per il suo accento... qui ha ragione Bruno.
"Quell'omiciattolo italiano [...] con un nome certamente più lungo del suo corpo [...] rimboccandosi le maniche come un giocoliere [...] facendoci un gran parlare di chentrum & chirculus & circumferenchia (tale infatti è la pronuncia del suo paese natio) intraprese il tentativo, fra le moltissime altre cose, di far stare in piedi l'opinione di Copernico, per cui la terra gira, e i cieli stanno fermi; mentre in verità, era piuttosto la sua testa che girava, e il suo cervello che non stava fermo."

Altro che plagio. Gira tutto intorno al fatto che Bruno sostiene le teorie di Copernico, e gli oxoniensi no. L'accusa di plagio regge proprio poco, perchè nei libri di Bruno la magia di Ficino fa da sfondo alla nuova teoria astronomica, e questo si sapeva ben prima che lui ne parlasse a Oxford.

Sia come sia, Bruno torna a Londra. E scrive - e pubblica - rapida successione quattro opere fortunate: La Cena de le ceneri, il De la causa, principio et uno, il De infinito, universo e mondi e lo Spaccio della bestia trionfante. E davanti agli inglesi che negano Copernico Bruno aggiunge per buona misura che l'universo è infinito e i mondi pure. Ed è il primo a fare questa affermazione.

Deluso dai britanni torna in Francia, e la situazione politica non è certo quella tranquilla alla quale si era abituato in Inghilterra. Enrico III è incalzato dal duca di Guisa, caporione della fazione cattolica intransigente e appoggiato dal re di Spagna. A farla breve il re ha i guai suoi e non perde tempo a proteggere Bruno (e probabilmente nemmeno a mantenerlo visto che agli inquisitori Bruno racconta di aver vissuto a sue spese in questo secondo periodo parigino).

Comunque il carattere di Bruno è quello che è, e avendo conosciuto Fabrizio Mordente, inventore di un particolare tipo di compasso, si entusiasma per la scoperta e ci scrive sopra quattro dialoghi, nei quali scrive che Mordente è un asino che non si è reso conto dell'importanza della sua scoperta. Lo stesso gioco che aveva fatto con Copernico ne la Cena de le ceneri in pratica, solo che mentre l'astronomo era morto, Mordente era vivissimo e si incazza come una iena. Compra tutte le copie - meno due - dei quattro dialoghi di Bruno e le brucia. Non contento, va da dal duca di Guisa e chiede vendetta contro l'ex frate (eretico, tra l'altro). Ora, aver contro il duca di Guisa, e tutte le sue guardie armate e fanatiche con dietro il regno di Spagna non è roba da poco nemmeno per uno come Bruno. Una persona normale avrebbe deciso - quantomeno - di starsene tranquilla per un po'. Ma Giordano Bruno no.

Non contento indice per il 28 e 29 maggio del 1586 una disputa pubblica al Còllege de Cambrai. Convoca i dottori di Parigi per parlare della natura e di Aristotele, argomenti che tratta nelle tesi che presenta con il titolo di Centum et viginti articuli.
Lo spettacolo comincia - è il caso di chiamarlo così davvero - con il discepolo di Bruno, Jean Hannequin che legge un discorso di apertura del maestro. Alla fine della prolusione Bruno si alza un po' strepitando e invita calorosamente i convenuti a difendere Aristotele, se ne sono in grado. Tutti tacciono, e Bruno urla ancora più forte certo della vittoria contro i saccenti dotti parigini. A rispondergli infine è un avvocato, il quale comincia dicendo che probabilmente gli altri stanno zitti perché non lo ritengono degno di una risposta. L'avvocato contrappone le tesi aristoteliche a quelle - decisamente un po' confuse - del nolano e alla fine dell'intervento invece di rispondere Bruno cerca di andarsene. Ma i francesi allora si incazzano, le palle ancora gli girano e gli dicono: no, bello, tu adesso stai qui e rispondi. E non lo dicono solo, lo trattengono proprio, perchè deve ritrattare le menzogne che ha osato lanciare contro Aristotele. Bruno promette di tornare il giorno dopo. Ovviamente non ci pensa nemmeno. E parte nottetempo per la Germania.






(1)Scrive così tanto che ci sono in Italia - oggi - almeno un paio di persone che sono andate in cattedra (o quasi) con quello che ha scritto Bruno.

puntate precedenti:
Tommaso Campanella
Pico della Mirandola