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17 agosto 2008

Democrito

Contemporaneo di Socrate e Platone e concittadino di Protagora, Democrito di Abdera nasce probabilmente intorno al 460 e muore vecchissimo intorno al 370. Fondatore dell’atomismo antico e suo esponente più importante, ci restano purtroppo di Democrito pochissimi frammenti, sebbene la tradizione riporti di lui molti titoli che testimoniano come la sua riflessione filosofica fosse ad ampio spettro e come la sua fama nell’antichità fosse superiore a quella dello stesso Platone, che non lo cita in nessuna delle sue opere come riporta maliziosamente Diogene Laerzio:

“Platone voleva dar fuoco a tutte le opere di Democrito, quante aveva potuto procurarsene, ma ne fu distolto dai pitagorici Amicla e Clinia che gli fecero osservare che non c’era frutto, perché quei libri eran già nelle mani di moltissimi. E si capisce: infatti lo stesso Platone, che fa menzione di quasi tutti gli antichi filosofi, non ricorda mai il nome di Democrito, neppure là dove proprio dovrebbe polemizzare con lui, ben sapendo che si sarebbe cimentato con il migliore dei filosofi.”[1]



[1] Fr. A 40.

storie della filosofia e domande

L’età ellenistica, che convenzionalmente va dalla morte di Alessandro il Macedone nel 323 a.C fino alla conquista romana dell’Egitto nel 31 a.C. segna un mutamento radicale del contesto sociale, del ruolo della polis e della coscienza individuale e l’orizzonte dell’agire umano si allarga contestualmente ai confini e ai cambiamenti che coinvolgono tutti i settori della vita sociale, dalla politica all’economia. Spesso la filosofia ellenistica è stata vista come una sorta di “regresso” rispetto ai grandi temi della filosofia classica, considerando negativamente l’indirizzo della riflessione filosofica verso temi come la felicità individuale, il benessere del singolo, il bene e la possibilità di una vita serena, e in molti manuali di filosofia spesso le filosofie ellenistiche vengono descritte come meno complesse e problematiche della tradizione precedente, e sottovalutato l’impatto delle critiche e delle polemiche che le animano contro i grandi sistemi come quello platonico e aristotelico. E’ necessario ricordare invece che l’orizzonte della polis, non solo nelle sue espressioni politiche, ma anche in quelle filosofiche ed etiche, riguardava una minima parte degli abitanti, quelli che godevano dei diritti politici, erano esclusi gli schiavi, le donne, e gli uomini liberi ma non cittadini, come gli stranieri, i liberti, e coloro che non erano figli di un matrimonio riconosciuto dalla polis. E questo solo all’interno delle città-stato che avevano un ordinamento democratico, poiché non esiste, per esempio, produzione filosofica a Sparta, o nelle colonie spartane, città nelle quali peraltro le donne con cittadinanza vivevano in una condizione di libertà e autonomia che le donne ateniesi non avrebbero mai conosciuto.

Quindi, al di fuori di quella ristretta minoranza che godeva di autonomia politica e individuale, i maschi nati liberi da genitori entrambi liberi e cittadini, per quale motivo tutti gli altri avrebbero dovuto vedere in una filosofia che aveva come argomento principale di ricerca il singolo, la sua comprensione del mondo, la sua possibilità di vita felice, un “regresso”?

30 maggio 2008

Descartes - seconda parte

E arriva a Breda, Olanda. E li conosce Isaak Beeckman. Sappiamo quasi tutto del rapporto tra i due, perché Beekman teneva un diario dettagliatissimo della sua vita e delle sue ricerche (ritrovato solo nel 1905). Allora, Cartesio è in giro per Breda, indossa un cappello verde molto ricercato sui lunghi capelli ondulati, una divisa e ha una spada d'argento al fianco. Cammina molto impettito, anche perchè - diciamolo - non è poi una stanga. Tutt'altro. I due guardano, insieme ad altri, uno strano manifesto scritto in fiammingo, e Cartesio attacca discorso chiedendo a Beeckman cosa c'è scritto. L'olandese gli spiega che è un problema matematico e se ne chiede la soluzione.
Non era un metodo strano, tutt'altro. Fin dal secolo prima anche in Italia si usava fare la stessa cosa; i matematici si sfidavano a vicenda alla dimostrazione dei teoremi più svariati. Comunque sia Beeckman traduce in latino per Cartesio e - quasi certamente per sfotterlo, visto che sul diario scrive che non credeva affatto che quel soldatino potesse trovare la soluzione - gli dice: "Posso presumere che mi darai la soluzione, una volta che avrai risolto il problema?"
Cartesio non fa una piega, gli chiede l'indirizzo e se ne va.
Beeckman stava a Breda, anche se era di Middelburg, perchè sperava di diventare vicedirettore della scuola latina di Utrecht, aveva studiato medicina e matematica e in attesa della carriera scolastica dava una mano allo zio ad allevare maiali.
La mattina dopo Cartesio si presenta a casa dello zio con la soluzione del problema. Quale problema fosse non è dato sapere, riguardava degli angoli e Cartesio aveva abilmente concluso che in quel problema non esistevano angoli. Pare una fesseria ma è un'argomentazione che alla fin fine Cartesio usa spesso. I cartesiani sostengono che parla "per assurdo". I cartesiani.

Intanto Maurizio di Nassau non va in guerra, e Cartesio resta nell'esercito. Come ufficiale volontario fa un po' quello che gli pare, e quindi ne approfitta: qualche donna, qualche festa, e lo sfizio di imparare il fiammingo, così da poter leggere da solo i manifesti per le strade. Che allora il fiammingo era una lingua utilissima da conoscere, quasi come oggi. Ah, dipinge anche. Aver brillantemente risolto il problema geometrico che non conosciamo lo riempie di entusiasmo; adesso a letto tutte le mattine non fa altro che leggere e scrivere di matematica e geometria, e studia anche le opere di combinatoria di Lullo. Che poi in questo non è che sia molto originale; gratta gratta dietro ogni filosofo-matematico-pensatore-ecc...tra cinquecento e seicento c'è Lullo.

Intanto il principe di Nassau non combatte, e Cartesio, che si era arruolato solo per assistere alle battaglie (non partecipare) un po' si incazza pure. E' arrivato da Parigi per vedere un po' di mossa e invece gli tocca stare a letto a leggere, come se fosse in una delle sue case di campagna. Intanto è morto Rodolfo II, e qualche casino dalle parti della Germania può scoppiare; visto che dall'Olanda nessuno si muove Cartesio si congeda e parte da solo, con l'idea di arruolarsi da quelle parti. Va a Copenaghen, poi in Polonia, prosegue per l'Ungheria e arriva a Francoforte in tempo per vedere l'incoronazione di Ferdinando II d'Asburgo. Mentre succede di tutto - comincia la Guerra dei Trent'anni per dire - Cartesio fa il turista, molto tranquillo, e si dirige in Boemia per vedere i combattimenti tra l'impero e l'esercito boemo e alla fine decide di arruolarsi, sempre alle solite condizioni - niente partecipazione ai combattimenti, il suo valletto resta con lui, e molto tempo libero - nell'esercito di Massimiliano, duca di Baviera.

A me sta cosa di uno che vaga per mezza Europa alla ricerca di un esercito in cui arruolarsi per non combattere nel bel mezzo di un conflitto che durerà trent'anni mi sembra semplicemente geniale.

L'esercito passa l'inverno sulle rive del Danubio, ed è lo stesso Cartesio che ci racconta, nel Discorso sul metodo:

"Mi trovavo allora in Germania, richiamatovi dalle guerre che colà ancora si combattono. Ritornando all'esercito dopo aver assistito all'incoronazione dell'imperatore, fui costretto dall'inverno incipiente ad acquartierarmi in una località dove, non essendo disturbato da alcuna conversazione e non essendo turbato, per fortuna, né da preoccupazioni né da passioni, trascorrevo tutto il giorno da solo chiuso in una stanza ben riscaldata da una stufa, dove avevo tutto l'agio di trattenermi con i miei pensieri".

E la notte tra il 10 e l'11 di novembre del 1619 Cartesio fa i tre sogni che lo portano alla conquista del successo perchè gli indicano, secondo l'analisi che ne fa lui stesso, la via per la nuova filosofia. Interessante notare che quella sera è la vigilia di San Martino, e tutti erano in festa e palesemente sbronzi. Tranne Cartesio, che quella sera non beve - anzi! non beve vino da tre mesi. (segue)

29 maggio 2008

Descartes - prima parte

Per continuare la serie biografica delle "pillole per niubbi" stavolta ho scelto di parlare di Descartes, - che ho già nominato qui, per mere vicende esistenziali - poi questo post avrebbe dovuto uscire per il suo genetliaco (31 marzo). Ritardo per ritardo, finalmente ringrazio l'orologiaiomiope, perchè è dai suoi splendidi ritratti di animali che ho preso l'idea delle "pillole per niubbi".

Altra premessa: Descartes parla quasi sempre in prima persona, il suo procedimento è autobiografico anche quando intende presentare le sue riflessioni in forma oggettiva e universale. Così, tanto per cominciare a inquadrare il personaggio.

Ora, Descartes è assolutamente fondamentale per qualsiasi storia della filosofia, non c'è manuale che non lo identifichi come il punto di partenza della filosofia moderna, il momento della svolta del sapere e del pensiero filosofico. Dopo aver letto questo, in qualsiasi manuale nelle pagine seguenti c'è il florilegio delle cazzate cartesiane; sembra che Cartesio non ne abbia azzeccata una: dalla prima obiezione di Hobbes, che al cogito ergo sum contrappone un geniale "cammino quindi sono una passeggiata", alla ghiandola pineale, alla teoria dei vortici (che in Inghilterra ancora si sbellicano dalle risate).

Descartes nasce il 31 marzo del 1596, nel Poitou - veramente nacque a La Haye, perché mammà non voleva stare sola e siccome il marito era lontano ne aveva approfittato per fare i venticinque chilometri che la separavano dalla casa dei genitori e far nascere il figlio colà. Fortunatamente la storia ha lasciato poche tracce di questa donna che ha rischiato di cambiare, per un capriccio da gravida ansiosa, la storia della filosofia occidentale e nonostante tutto gli amici chiamarono sempre Cartesio "René le Poitevin". Essì, perchè La Haye sta nella Touraine, a maggioranza cattolica, al contrario del Poitou che invece era a maggioranza protestante, e quindi Cartesio, di famiglia fervidamente cattolica, finisce per crescere in una regione protestante, e allevato da una altrettanto fervente istitutrice cattolica. Il risultato fu che per tutta la vita ebbe una salutare paura dell'Inquisizione preferendo vivere perlopiù in paesi protestanti, dove magari lo attaccavano (ma pure poco) in quanto cattolico, ma non attentavano seriamente alla sua salute.

La Haye in quegli anni non era un gran posto dove vivere, tra la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento ci passò parecchie volte la peste, e il nome della cittadina (adesso si chiama Descartes) derivava direttamente dalle siepi spinose che venivano piantate come vana difesa contro le scorriere dei briganti. Poi nel 1596, l'anno della nascita del nostro appunto, arrivò da quelle parte il duca d'Anjou e dei briganti si persero le tracce (tralasciamo il come, alquanto sanguinoso).

Cartesio ricorda la sua infanzia, felice nonostante la morte della madre - quattro figli in quattro anni - a zonzo per le campagne e a contatto con la natura e gli animali. Insomma, la cautela nell'allevare bambini deve essere massima, se la storia può insegnare qualcosa.

La famiglia era ricca, senza tanti fronzoli, era proprio ricca; sia dal lato paterno che da quello materno, e da entrambe le ascendenze formata da medici. Medici pieni di fervore per la ricerca se il bisnonno di Cartesio, Jean Ferrand, - medico personale della regina Eleonora d'Asburgo, figlia di Giovanna la Pazza (che poi tanto pazza non era) e moglie di Francesco I di Francia, - non ebbe esitazioni nel fare l'autopsia al genero, morto di calcolosi renale, e pubblicare pure la relazione autoptica in latino. Comunque sia, diventato grande, Cartesio deve perdere un sacco di tempo per curare gli affari di famiglia, soprattutto proprietà terriere, che gli consentirono di fare il filosofo senza troppe preoccupazioni quotidiane. E anche di togliersi lo sfizio di fare il gentiluomo d'arme, senza peraltro partecipare mai a una battaglia.

A undici anni Cartesio entra nel collegio gesuita di La Flèche, e ci resta per otto anni; a ragione della sua salute cagionevole (e dei soldi di papà) ha un trattamento di favore, e non da poco. La disciplina dei gesuiti è abbastanza nota, e invece il giovane Renè viene esentato dal seguire le regole orarie del collegio. Può poltrire a letto e andare in classe quando se la sente; abitudine che manterrà tutta la vita, quella di svegliarsi tardi e rimanere a letto a pensare finchè non si sentiva abbastanza riposato da alzarsi.
Insomma gli altri avevano orari da facchini, estate e inverno, tutti in piedi alle cinque di mattina. Tra le cinque e le cinque e quarantacinque preghiera e lavacri mattutini, poi fino alle sette studio e colazione. Alle sette e mezza in classe fino alle dieci, poi a messa, poi a pranzo. Alle tredici e trenta di nuovo in classe fino alle sedici e trenta (o diciassette e trenta d'estate); Cartesio più o meno compariva per le lezioni del pomeriggio, e non era tra gli studenti più popolari, e capiamo anche perché.
Il curriculum studiorum di La Flèche era di prim'ordine. Latino, greco, retorica, filosofia, matematica. E Aristotele, tanto Aristotele, sopra tutto? Aristotele. Il che rende le periodiche affermazioni di Cartesio (ho fatto tutto da solo, ho pensato tutto io) alquanto poco credibili.

Si diverte Cartesio dai gesuiti, dorme, tira di scherma, studia quello che gli pare e seppellisce anche il cuore di un re. Fa parte infatti dei ventiquattro allievi che scortano all'ultimo riposo il cuore - solo quello - di Enrico IV ucciso da un fanatico cattolico.

Di Enrico IV si ricordano due frasi famose "Parigi val bene una messa" e "un pollo in ogni pentola". Il suo assassino invece inaugura una scuola di pensiero che arriva fino a Lee Oswald "Ho fatto tutto da solo".

Nel 1615 Cartesio lascia il collegio e si trasferisce a Poitiers a studiare diritto. Si laurea in un anno, e non si capisce come visto che passa buona parte delle sue giornate a tirare di scherma e andare a cavallo. Nel pomeriggio, ovviamente. Dopo la laurea decide di andare a Parigi, ma il padre non è molto contento della decisione; René lo convince che deve andarci per completare la sua formazione e allora papà acconsente, non senza mandargli dietro un valletto e un paio di domestici. Un valletto scelto da René, naturalmente, che non si muoverà mai senza almeno tre domestici al seguito, per tutta la vita.

La Parigi in cui arriva Cartesio è quella dei Tre moschettieri (sapevate che Dumas padre era mulatto?), per intenderci, damerini azzimati che uscivano con la spada lucente al fianco, vestiti di seta e broccato, eleganti, cicisbei e un po' guasconi. E Cartesio era tra i primi, giovane provinciale pieno di soldi sbarcato nella capitale, colto e raffinato.

Beve, gioca d'azzardo, balla alle feste. A Parigi gli passano tutti i mali che l'avevano caratterizzato come cagionevole; non soffre più di niente e può passare le notti in giro a far casino. A Parigi ritrova anche Marin Mersenne, vecchia conoscenza del collegio che ha preso i voti e fa il gesuita. E meno male che lo ritrova perché almeno con Mersenne qualcosa studia (matematica e musica, perlopiù). Dopo un anno di bagordi si stufa e decide che deve rimettersi in riga, ma gli amici sono sempre alla sua porta, c'è sempre una festa, un concerto, una donna; per tagliare la testa al toro Cartesio decide di cambiare casa e non da a nessuno il nuovo indirizzo; va a stare in un posto che allora era quasi fuori città, vicino alla chiesa di Saint-Germain-des-Prés. Resta nascosto per quasi un anno, studia, scrive, pensa. E dorme. Poi si stanca anche della vita da intellettuale recluso e quando viene a sapere che Maurizio di Nassau, principe di Orange sta cercando volontari per il suo esercito licenzia i domestici e parte con il valletto per andare in Olanda ad arruolarsi. Il fatto che il principe di Orange sia un protestante non gli turba minimamente il sonno. (segue)

Socrate - seconda parte
Socrate - prima parte
Giordano Bruno - seconda parte
Giordano Bruno - prima parte
Tommaso Campanella
Pico della Mirandola

09 febbraio 2008

Socrate - parte seconda

I Trenta vengono sconfitti dai democratici di Trasibulo, e non senza l'appoggio di un'altra fazione spartana, quella di Pausania, che si oppone a Lisandro, primo ispiratore del governo fantoccio.


I superstiti dei tiranni si rifugiano ad Eleusi (Crizia è già stato ucciso in battaglia).
Verranno uccisi tre anni dopo, a tradimento. Senofonte invece se ne va a combattere con Ciro, e poi ci racconta come è andata nell'Anabasi.


Ad Atene intanto si delibera una sorta di amnistia generale, alla ricerca della pacificazione della città; dall'amnistia vengono esclusi solo i reati di sangue.

Perchè c'entra il processo a Socrate con tutta questa vicenda.

Che nello stesso anno non viene processato solo lui, ma sono celebrati almeno altri quattro/cinque procedimenti, tutti a carico di persone con legami con i Trenta, e tutti - più o meno - con accuse vere, anche se pretestuose.

E pare alquanto probabile che, lungi dal voler colpire il Socrate "filosofo" si trattasse di andare a prendere il Socrate maestro di Crizia e Senofonte, certamente una figura emblematica tra quelli "rimasti in città", acquiescenti quando non collaboratori della tirannide. E che costoro avessero impedito a Socrate di avere contatti con i giovani della città non sembrava poi tanto a suo favore, considerato che a nessuno, nè democratico nè oligarca aveva mai sopportato più di tanto l'influenza di Socrate sui giovani.

Ma torniamo un po' indietro oppure, andiamo avanti, come preferite, che quello che sappiamo di Socrate viene scritto negli anni - e nei secoli - successivi alla sua morte.

Partiamo dal grande pubblicitario di Socrate, dal suo esperto del marketing, quello che ci ha confezionato l'immagine grandiosa del filosofo: Platone.

Il Socrate consegnato alla filosofia - e alla storia - è quello che emerge dai dialoghi platonici. Vediamone qualcuno.


Eutifrone
Socrate è convocato dall'arconte, e davanti al tribunale incontra Eutifrone. Ovviamente Socrate gli chiede cosa fa in tribunale (oh, i fatti suoi mai eh, Socrate?) e il tipo gli dice che è andato a denunciare il padre, che ha commesso un assassinio. Socrate lo convince che denunciare il padre è un atto di empietà.

Fedone
Il dialogo è ambientato in carcere. E' arrivata la nave da Delo ed è quindi l'ultimo giorno di vita per Socrate. Si sparge la voce e gli amici si precipitano da lui, e li trovano Santippe con il figlio piccolo di Socrate in braccio (talchè si può desumente che Santippe avesse una trentina d'anni meno del marito). Ben felice di sparare cazzate bevendo con gli amici Socrate, senza nemmeno salutarli, fa sbattere fuori moglie e figlio.

Cratilo
In questo dialogo Socrate discute con un seguace di Eraclito, e perde. Nonostante gli sforzi di Platone perde. Tanto è vero che l'ultima frase del dialogo è di Cratilo che dice: " Socrate [...] cerca di riflettere ancora su questo problema" (traduzione: fesso, non hai capito niente).

Teeteto
Qui la voce narrante è quella di Terpsione che, molti anni dopo, racconta il dialogo tra Socrate e Teeteto ragazzino. Qui Socrate cerca di incastrare Teodoro (che non c'è), maestro del ragazzo, e non ci riesce nemmeno. Bella correttezza, direte voi e dico io. Fortunatamente lo deve mollare per andare in tribunale (Platone insiste spesso su questa cosa del tribunale, chi frequenta usenet riconoscerà meccanismi compulsivi ben noti al limite del lamerismo), anche perchè non contento di tentare di mettere il buca il ragazzino cerca anche di sedurlo e gli da appuntamento per il giorno dopo, stesso posto, stessa ora. No dico, questo sta andando in tribunale per difendersi da un'accusa che prevede la pena di morte, parte dell'accusa è il suo comportamento verso i ragazzini...

Sofista
E' il dialogo del giorno successivo. Avendo capito che con Socrate non si vince, Platone fa intervenire un altro, e a discutere con Teeteto ci mette un straniero di Elea, che sostiene le tesi di Platone (che Socrate non sarebbe stato credibile a criticare Parmenide, e questo lo sapeva bene anche il suo allievo). Stronzo come nessuno, Platone mette un concittadino di Parmenide a distruggerlo. Qualcuno ha parlato di "messa in scena di parricidio", mi pare eccessivo ma rende l'idea della bastardaggine di Platone.

Politico
Siamo sempre nello stesso giorno. Teeteto non c'entra niente, ma c'è ancora. Socrate non lo molla un minuto il ragazzino.

Fedro
Di questo dialogo permettetemi di riportare e commentare le frasi iniziali:

SOCRATE: Caro Fedro, dove vai e da dove vieni? (al solito, Socrate curioso come una scimmia)

FEDRO: Dalla casa di Lisia, Socrate, il figlio di Cefalo, (1) e vado a fare una passeggiata fuori dalle mura. Ho passato parecchio tempo là seduto, fin dal mattino; e ora, seguendo il consiglio di Acumeno,compagno mio e tuo, faccio delle passeggiate per le strade, poiché, a quanto dice, tolgono la stanchezza più di quelle sotto i portici.

SOCRATE: E dice bene, amico mio. Dunque Lisia era in città, a quanto pare. (qui si capisce benissimo che Socrate rosica)

FEDRO: Sì, alloggia da Epicrate, nella casa di Monco, quella vicino al tempio di Zeus Olimpio.

SOCRATE: E come avete trascorso il tempo? Lisia non vi ha forse imbandito, è chiaro, i suoi discorsi? (è chiaro che è furente, questi non solo banchettano con Lisia dalla mattina presto, ma si lasciano anche incantare dai suoi discorsi)

FEDRO: Lo saprai, se hai tempo di ascoltarmi mentre cammino.

SOCRATE: Ma come? Credi che io, per dirla con Pindaro, non faccia del sentire come avete trascorso il tempo tu e Lisia una faccenda «superiore a ogni negozio»? (e figuriamoci se non vuol sapere cosa ha detto Lisia!)

FEDRO: Senza dubbio, Socrate, l'ascolto ti si addice, poiché il discorso su cui ci siamo intrattenuti era, non so in che modo, sull'amore. Lisia ha scritto di un bel giovane che viene tentato, ma non da un amante, e ha comunque trattato anche questo argomento in modo davvero elegante: sostiene infatti che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che chi ama. (non so a voi, ma a me questa frase fa specie, è che Socrate passa sopra anche agli insulti pur di parlare di sesso. Provate a pensare, incontrate un conoscente, e questo vi dice: "oh, proprio un discorso adatto a te abbiamo fatto, si parlava di stupri di cani" voi che fate? Socrate non fa una piega invece.

Protagora
Questo dialogo comincia così:

AMICO: Da dove salti fuori, o Socrate? Ma è chiaro, sicuramente torni dalla caccia al bell'Alcibiade! L'ho visto ieri l'altro, e mi è parso ancora un bell'uomo, e tuttavia ormai uomo, sia detto fra noi, o Socrate, che si è già quasi coperto di barba!
SOCRATE: E con questo, allora? Non sei ammiratore di Omero, il quale sosteneva che l'età più grata è quella di colui al quale spunta la prima barba, appunto l'età che ha ora Alcibiade?
AMICO: E ora che fai? è veramente da lui che vieni? E in che disposizione d'animo è, il giovanotto, nei tuoi riguardi?
SOCRATE: Buona, almeno mi è sembrato; anzi, oggi in modo particolare!

Possiamo solo dedurre che insultare Socrate quando passava per la strada era sport decisamente praticato ad Atene.

E questi sono stralci scritti da chi lo difendeva, e non siamo ancora arrivati ad Aristofane.



07 febbraio 2008

Socrate - parte prima

Anche chi non sa assolutamente nulla di filosofia ha però un'immagine affettuosa e romantica in mente quando sente nominare Socrate. Socrate, il disinteressato a fronte di quegli esosi dei sofisti; Socrate, il padre della filosofia; Socrate, il combattente per la libertà sacrificato da biechi governanti, che trascinano questo povero vecchio in tribunale, un eroe di guerra!, per processarlo e condannarlo a morte. Socrate, che rifiuta di fuggire e accetta la condanna, come ci descrive Platone, con accenti gravi, tristi e forieri di accuse verso i suoi carnefici.

Platone però non c'era accanto a Socrate, ché dal maestro qualcosa l'aveva imparata, primis: pararsi il culo. E allora come oggi, non è così intelligente stare accanto a uno sotto processo, poi condannato a morte; diciamo che la gente non capisce, e può farsi idee strane. (ma ci torneremo sopra in un'altra occasione).

Socrate, dicevamo.
Qualcosa sappiamo della vita di Socrate, e le fonti più importanti sono quattro: Aristofane, Senofonte, Platone e Aristotele (Aristotele però in seconda istanza, non avendolo mai conosciuto); poi vabbe', c'è il solito Laerzio.
Nasce ad Atene nel 470-469, fa il servizio militare, qualche campagna di guerra, e nel 399 viene processato.

Secondo Diogene Laerzio, quando in una discussione entrava Socrate, spesso finiva in rissa; lo prendevano a pugni, a calci, a sputi. Quando parlava lui, la gente perdeva il lume della ragione, non capiva più nulla e avrebbe fatto qualunque cosa per farlo tacere. [un po' come oggi quando parla Calderoli insomma].

E quanto parlava Socrate, scrivere invece niente.

Perché non scrive Socrate? Si sono scritti volumi per rispondere a questa domanda, senza contare l'angoscia esistenziale di Platone, che invece scrive un sacco, e molte delle pagine da lui scritte contengono le scuse per averle scritte, ché il suo maestro gli aveva detto che scrivere era una brutta cosa che fa diventare ciechi (1).

Ho una mia bieca spiegazione sul perché Socrate non scrive. Secondo Platone Socrate conosceva Parmenide, Zenone di Elea, aveva letto Anassagora; questo mi fa supporre non che non volesse scrivere, ma che non sapesse cosa, scrivere.

E parlare in piazza è un un buon modo per dire una cosa oggi, e un'altra domani, fidando nella poca memoria, nella capacità dialettica e nella splendida, strepitosa, fantastica scusa del "so di non sapere".

Non fatevi ingannare dall'apparente modestia di questa affermazione.

Socrate la pronuncia per ribattere all'oracolo di Apollo che l'aveva indicato come l'uomo più sapiente di tutta la Grecia. Lui, fingendosi sorpreso, sostiene di non spiegarsi l'affermazione del dio, perché l'unica cosa di cui è certo è che "sa di non sapere".

Bene.

Per prima cosa possiamo dire che Socrate era maleducato, perchè se uno ti fa un complimento ti dice, che so, "sei bello" non è che puoi rispondere "bello no, ma certo più di te".
Perché è questo che Socrate risponde ad Apollo. Chè poi Apollo si incazza per molto meno eh? Ed è perfido la sua parte.

Quando Cassandra lo rifiuta, per esempio.
Lui invece di fare come il padre, Zeus, che quando le donne gli dicevano di no, le stuprava, ma poi la cosa finiva lì, e se andava bene nasceva anche un semidio, Apollo, da figlio viziato, faceva lo sdegnoso e si vendicava atrocemente.

E a Cassandra fa il dono di profetare, senza essere mai creduta.
Una bella condanna, se ci pensate.

Voi non solo avete sempre ragione, ma lo sapete prima, e tutti vi prendono per i fondelli, e dopo un po' vi schivano pure, che non solo continuano a non credere alle vostre parole, ma sono anche certi che portate sfiga.
E questo per tutta la vita, e solo per non aver voluto, una volta, cedere alle avances di Apollo.

Ma torniamo a Socrate che, proclamandosi come non sapiente, in realtà afferma che sa una cosa che il dio ignora: "sa di non sapere".
E mette a tacere un dio.
E poi ci si meraviglia se l'accusano di empietà.

Come stupirsi, quindi, se gli umani che non hanno, spesso, il dono della divina pazienza, davanti a qualche sua sparata in piazza regolassero la questione a cazzotti.

Socrate per un po' fa lo scultore, come il padre Sofronisco. La madre, Fenarete, era levatrice, non apparteneva dunque ai ceti più elevati, anzi diciamo pure che l'unica cosa che cerca, nei paraggi dell'aristocrazia ateniese, sono i ragazzini.

Alcibiade e Platone sono solo i più famosi, ma a quanto pare Socrate faceva strage di cuori, e non solo, che la castità non era una delle sue qualità più famose, se dobbiamo proprio credere ad Alcibiade. Anzi a Platone, che in dialogo mette in scena un racconto di Alcibiade.

Che racconta di essersi infilato nel letto di Socrate, e di aver passato la notte in completa sicurezza, come se avesse dormito con il padre, o con un fratello.
E lo racconta a più riprese, e sembra essere lui il primo a non crederci.
Che diamine! Socrate non aveva mai rifiutato un giro di giostra a nessuno!
Per quale diavolo di motivo lui -Alcibiade il bellissimo, sogno di tutti gli uomini di Atene - doveva essere il primo?

E si capisce anche che chi lo ascolta gli crede a fatica, e solo perché lui è Alcibiade e spesso paga il vino, che è brutto dare del bugiardo a uno che ti paga l'aperitivo una sera si e una no, e che per di più gira in compagnia dei suoi amici aristocratici sempre pronti a menare le mani.

A un certo punto Socrate viene sorteggiato per entrare nel consiglio dei Cinquecento; caso volle che qualche tempo dopo il consiglio dei Cinquecento dovette giudicare il comportamento dei generale ateniesi nella battaglia delle Arginuse; che gli strateghi la vincono quella battaglia, ma non si fermano a soccorrere i soldati caduti in mare - ateniesi e concittadini.

Tutti quelli chiamati (cinquecento!) a giudicare se i generali devono essere processati votano per il processo, tranne Socrate.
Ovviamente il processo viene istruito e gli imputati condannati.

Poi Atene perde la guerra del Peloponneso e Sparta impone sulla città un governo fantoccio, quello dei Trenta Tiranni. Leader dei Trenta era Crizia, zio di Platone, e a sua volta seguace di Socrate; tra loro c'è anche Senofonte, altro allievo di Socrate.

Senofone è un cavaliere, e proprio la cavalleria si distingue per la ferocia con cui combatte.

Comincia un periodo di terrore per Atene, i simpatizzanti del partito democratico scappano in massa dalla città per non venire uccisi, e si impadroniscono del Pireo, dal quale escono per combattere. E' la guerra civile.

A un certo punto i Trenta decidono che le retrovie della città non sono sicure, e scelgono Eleusi come roccaforte, ma ad Eleusi ci sono gli eleusini.

E che fanno i Trenta?

Mettono in scena un falso censimento: mano a mano che gli uomini vengono registrati devono uscire dalla porta della città, ma appena fuori dalle mura i cavalieri schierati su due file li ammazzano.

Da Atene non scappano solo i democratici, ma se ne vanno anche coloro che non vogliono essere coinvolti nelle azioni dei tiranni, ma non Socrate.

Socrate resta in città.

In quella città ormai stretta nella morsa dei tiranni, con a capo due suoi allievi.

In un bellissimo libro dal titolo Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci, di Luciano Canfora (2), c'è una splendida ricostruzione degli avvenimenti


(1) qui si potrebbe aprire una bella digressione sulla contemporaneità filosofica italiana, ma la tengo per un'altra volta.
(2) Tutti i libri di Canfora sono da leggere.

05 gennaio 2008

Giordano Bruno - seconda parte

Insomma Bruno è così. Un po' genio e un po' millantatore, che a volte davvero arriva dove altri non riescono, con poco senso della misura e molto di sé, che probabilmente nel suo secondo soggiorno parigino ha l'intenzione sincera di rientrare nei ranghi della chiesa cercando conciliare la sua filosofia con i dogmi e l'autoritarismo.

Nel 1586 da Parigi scappa in Germania, gli scherani del Guisa sono un argomento molto convincente. A Wittenberg viene accolto con grande calore e ricomincia a insegnare. Almeno finchè comandano i luterani, perchè quando al potere vanno i calvinisti Bruno deve fare le valige un'altra volta. In questo periodo nelle sue lezioni - e poi nelle opere a stampa - approfondisce il lullismo. Opere un po' noiose, diciamo la verità. Costretto a partire va a Praga. A Praga c'è Rodolfo II, imperatore del Sacro Romano Impero, appassionato studioso di magia, alchimia, arte della memoria, che tiene a corte maghi, astrologi, alchimisti, tutti da lui impegnati alla ricerca della pietra filosofale. In questa occasione Bruno non è particolarmente fortunato, astronomo di corte è proprio Mordente, il matematico. E Bruno, sempre per non farsi riconoscere, dedica al re un'opera dal titolo Articuli adversus mathematicos. Un'opera strana, in cui non ci si capisce niente davvero, al punto che la Yates propone l'ipotesi che sia scritta in un qualche linguaggio cifrato. (la mia è: pazzo forse, ma scemo no).

Rodolfo II gli molla qualche soldo, ma niente impiego fisso a corte. E così Bruno riparte. Riparte per Brunswick, dove da pochissimi anni è attiva una università. Appena arrivato gli danno da tenere l'orazione funebre per il duca morto in quei giorni. Si ripete una storia già vista, quando arriva in un posto di solito Bruno è accolto favorevolmente, poi scrive o dice qualcosa che irrita e deve andarsene. A Brunswick è particolarmente anticattolico e antipapista. Ora, il duca appena morto era protestante, ma il figlio che eredita il ducato è cattolico, almeno ufficialmente. Tanto per dire che, al contrario di Campanella, Bruno non ha il minimo senso dell'opportunità e del potere, se non di quello della parola, nel quale è un maestro. In questo periodo scrive e pubblica poemi in latino, e l'argomento principale è la magia, ispiratore Lucrezio. Queste opere vengono pubblicate a Francoforte, dove si trasferisce per qualche tempo. Mentre è intento a questo lavoro conosce un tipo un po' strano, Hainzell, che ha una proprietà in Svizzera in cui ospita maghi, astrologhi e compagnia varia. Bruno vive a casa di Hainzell per qualche mese e gli dedica l'ultima opera che pubblica il De imaginum, signorum et idearum compositizione. Già solo il titolo sta a indicare che l'opera viene considerata da Bruno stesso molto importante.

Qui si apre l'ultimo capitolo della vita di Bruno. Le sue opere sono vendute in tutta Europa e a Venezia un suo assiduo lettore è un nobile veneziano, Giovanni Mocenigo, che chiede al suo libraio - Giovanni Battista Ciocco - se conosce Bruno, perchè vuole imparare da lui l'arte della memoria.

Ciocco, che da bravo libraio frequentava le fiere del libro di Francoforte, conosce Bruno in occasione di uno di questi viaggi e gli trasmette l'invito di Mocenigo. E Bruno torna in Italia, fregandose come sempre di frontiere, di cattolici, di protestanti, di guerre di religione e di odi accademici o religiosi. Sembra davvero convinto, nonostante gli spostamenti a cui è costretto, alcuni vere e proprie fughe, che la sua arte, basata sulla magia erotica, sia passaporto sufficiente in un'Europa dilaniata dagli odi. In questo forse sta la geniale ingenuità di Giordano Bruno, nella convinzione che il vero sapere possa prevalere, che possa essere riconosciuto e trionfare sulle divisioni e sul potere. Il sapiente è il vero dominatore della natura e dell'animo degli uomini. E cerca di cogliere tutte le occasioni per propagandare la sua dottrina. Non cambia ciò che pensa e dice a seconda delle circostanze, ma cerca di piegare le varie situazioni al suo fine. A Venezia addirittura frequenta un domenicano, vecchia conoscenza al tempo della gioventù napoletana, e lo informa che sta scrivendo un libro da presentare al papa per ottenere un insegnamento universitario. Penso alla faccia sbalordita che deve aver fatto costui davanti a questo proposito.

D'altro canto Bruno si riteneva un riformatore religioso, anzi un vero e proprio messia. Diciamo che lo animava una sorta di delirio di onnipotenza, che lo spinge, visto il mutamento della situazione politica a cercare di riavvicinarsi alla chiesa.

Cosa era cambiato nel frattempo? In primo luogo si era imposto all'Europa Enrico III di Navarra, (diventa Enrico IV quando sale al trono di Francia) che aveva manifestato il proposito di convertirsi al cattolicesimo. E Bruno degli affari di Enrico di Navarra era al corrente, sembra nei minimi particolari.
Il suo corrispondente da Parigi, Piero Del Bene, era ben introdotto a corte e lo tiene informato su ciò che vi accade e su quello che vi si progetta. Non a caso gli inquisitori, quando interrogano - sotto tortura, non lo scordiamo - Bruno, sono molto interessati a quello che sa intorno ai progetti e alle mire di Enrico.

Comunque sia, Bruno si aspetta grandi cose da Enrico di Navarra. E pare certo di far parte di progetti grandiosi. E probabilmente torna in Italia sopratutto per questi. Sta a Venezia, e poi a Padova, dove detta il De vinculis in genere, dove tratta compiutamente dei legami magici tra le cose, fondati sull'amore e sull'erotismo.

Passa un po' di tempo, insomma, prima di trasferirsi a casa di Giovanni Mocenigo che dopo qualche mese lo denuncia all'Inquisizione. A dire il vero Bruno si era accorto che tirava brutta aria, e progettava di tornare a Francoforte, ma il nobile veneziano ne prevenne la fuga chiudendolo a chiave in una stanza prima di chiamare le guardie.

Per Bruno saranno otto anni di galera, di interrogatori, di torture.
Viene imprigionato il 26 maggio 1592 e sale al rogo il 17 febbraio 1600.

Bruno comincia sotto interrogatorio ad esporre la sua filosofia, l'idea dell'infinitezza dell'universo, del panteismo, dell'amore che tiene tutte le cose. Non rinnega la sua incredulità nei confronti dell'incarnazione di Cristo. Può credere nella potenza divina dice, ma certo non nell'idea che dio si sia fatto uomo. Alla fine del processo veneziano Bruno ritratta tutte le eresie di cui è accusato, e si affida ai giudici. Cerca di evitare il trasferimento a Roma, probabilmente, ma non ci riesce. Secondo me Roberto Bellarmino ci diventa matto con Bruno, che ai processi con brillanti orazioni ricusa tutte le eresie che è costretto a professare sotto tortura, e lascia senpre gli accusatori spiazzati.

Alla fine Bellarmino, dalla lettura delle opere di Bruno, tira fuori otto (otto? su migliaia di pagine?) proposizioni eretiche e gli chiede di abiurarle. Bruno sembra acconsentire. Ma poi ritratta le ritrattazioni, sostenendo di non aver mai scritto niente di eretico, e che sono gli inquisitori che non comprendono ciò che egli scrive, e che interpretano in maniera erronea le sue affermazioni. (una linea di condotta che ha fatto scuola direi).

Ma è finita e Bruno lo sa. E si prende l'ultima vittoria che può cogliere: non rinnega nulla della sua opera e di sé.

Dichiarato eretico impenitente viene condannato a morte e arso vivo in Campo de' Fiori a Roma il 17 febbraio 1600.

puntate precedenti:
Giordano Bruno - prima parte
Tommaso Campanella
Pico della Mirandola

04 gennaio 2008

Giordano Bruno - prima parte

Era un gran rompiballe Giordano Bruno, è innegabile. E anche saccente, uno di quelli: "so tutto io e voi non capite niente". Va detto che talvolta aveva anche ragione a pensarlo. E a dirlo. Talvolta. Agli inquisitori che lo interrogano sotto tortura Bruno si presenta così:
"Io ho nome Giordano della famiglia di Bruni, della città de Nola vicino a Napoli dodeci miglia, nato ed allevato in quella città, e la professione mia è stata ed è di lettere e d'ogni scienza". Insomma che non equivocassero, gli sgherri del potere: lui è un intellettuale.

Si presenta sempre un po' sfigato, senza una lira e odiato dalla folla, ma pare fosse un gaudente, e soprattutto un grande estimatore delle grazie femminili.

Ma andiamo per ordine. Nasce a Nola nel 1548, e nel 1562 si trasferisce a Napoli, dove tre anni dopo entra in convento. Il convento di San Domenico Maggiore (quello in cui è sepolto Tommaso d'Aquino, tanto per dire). Ordinato sacerdote nel 1573, nel 1575 si laurea in teologia e già non sopporta più Aristotele. Legge Telesio, Paracelso, i testi ermetici, Lucrezio.
E infatti nel 1576 scappa da Napoli a Roma, accusato di eresia, ma anche a Roma sono guai, e allora si sposta in Liguria, a Savona. Tra il 1576 e il 1577 visita più o meno tutta l'Italia del nord: Torino, Venezia, Padova, Brescia, Bergamo.
Ma deve mollare il colpo, l'inquisizione arriva ovunque, e Bruno comincia a vagabondare per l' Europa.

Ha un capitale da spendere: è un ex frate domenicano versato nell'arte della memoria e nella magia, in un periodo - il 1500 - nel quale i domenicani partenopei sono famosi per la loro irrequietezza e le loro arti.

E Bruno non fa mistero di poter insegnare arti misteriose e magiche, provenienti da una sapienza antica, più antica del cristianesimo, della grecia, degli ebrei. Anzi, si presenta come un campione di quella sapienza, dalla quale tutte le altre derivano:
la sapienza egizia di Ermete Trismegisto.

Il 1578 lo vede in Francia, a Chambéry, poi a Ginevra, dove aderisce al calvinismo.

Che non gli gusta per nulla, sentimento per altro ricambiato, nemmeno i calvinisti sono entusiasti di lui. Si sposta a Tolosa, deve insegna per due anni filosofia.

Nel 1581 è a Parigi e tiene una serie di lezioni pubbliche che lo mettono in luce, tanto che viene chiamato dal re, Enrico III. Intorno a Bruno nasce la fama di mago, anche per via di due trattati sull'arte della memoria che pubblica in quel periodo: il De umbris idearum, giustappunto dedicato al re, e il Cantus Circaeus.
(solo il De umbris idearum più che un post meriterebbe un libro se Frances Yates non avesse già scritto Giordano Bruno e la tradizione ermetica).

Saccheggia a piene mani Ficino, aiutato in questo dal fatto che si sbarazza del cristianesimo senza grandi problemi, ritenendo i testi ermetici ed egiziani di gran lunga superiori.

Nel frattempo qualche sua opera passa oltremanica, e viene pubblicata a Londra. Bruno la segue, e i contatti a corte non sembrano così millantati se è vero che ha una lettera di presentazione del re per accreditarsi presso l'ambasciatore francese; e non solo si accredita, ma vive a casa sua per tutto il tempo che si ferma in Inghilterra. E c'è chi pensa, e dice, che Bruno in realtà sia una spia in missione per il re di Francia.
Di certo c'è che l'ambasciatore inglese a Parigi - Harry Cobham - si prende la briga di avvisare in patria che sta arrivando Bruno:
"Intende venire in Inghilterra il dottor Giordano Bruno, Nolano, professore di filosofia, la cui religione non posso approvare"

Non aggiunge "statev accuort" solo per via della flemma britannica.

Per altro, trattandosi di Bruno, la frase "la cui religione non posso approvare" suscita almeno un sorriso. Ex domenicano, ex calvinista, attualmente mago egizio, a quale religione si riferisce l'ambasciatore?

Intanto, visto che gli sta in casa, Bruno dedica un paio di opere all'ambasciatore francese. Ma visto che non si butta niente e che scrivere è faticoso, un bel po' di pagine sono riciclate. Così ne approfitta per ristampare il Cantus Circaeus.

Ma non illudetevi, Bruno scrive, e parecchio (1).


E' un grande pubblicitario Bruno, un profondo conoscitore dell'animo umano e delle tecniche utili per manipolarlo. E se non credete a me, leggete Eros e magia di Couliano, che di Bruno scrive:
"Al suo massimo grado di sviluppo, raggiunto nell'opera di Giordano Bruno, la magia è un metodo di controllo dell'individuo e delle masse basato su una profonda conoscenza delle pulsioni erotiche individuali e collettive [...] Il mago del Rinascimento è, si, psicoanalista e profeta, ma anticipa anche professioni moderne come quelle di capo delle relazioni pubbliche, propagandista, spia, uomo politico, censore, direttore dei mezzi di comunicazione di massa, agente pubblicitario."

Comunque sia Bruno mira ad Oxford. E per presentarsi, dopo la dedica all'ambasciatore, scrive nell'introduzione una lettera indirizzata al Vice Cancelliere dell'università, dove - tra le la altre cose - si presenta così:

"[...] professore di una sapienza più pura e innocua (altro che mago cattivo), noto nelle migliori accademie europee (e a questo punto come fai, tu che sei vice cancelliere a Oxford a dire "chi cazzo sei?" ), filosofo di gran seguito (meglio ribadire, un cv è un cv) domatore dell'ignoranza presentuosa e recalcitrante (avete bisogno di un esperto in didattica per caso da voi a Oxford?) che non preferisce gli Italiani ai Britanni (politically correct anche) i maschi alle femmine (probabilmente anche allora nei college inglesi c'erano simpatiche usanze nei confronti degli allievi e Bruno ci tiene a chiarire che non intende entrare nella riserva di caccia di nessuno) che è odiato dai propagatori e dagli ipocriti, ma ricercato dagli onesti e dagli studiosi, e il cui genio è applaudito dai più nobili (insomma se non mi prendete siete ignoranti, presuntuosi, bugiardi e meschini).

Comunque sia, Bruno a Oxford ci va. E i resoconti non collimano tanto, diciamo.

Lui racconta di averli stesi di brutto, e di essere stato trattato malissimo perchè li aveva messi in buca più di una volta. E sottolinea la sua pazienza davanti alle ingiurie.

George Abbott, non proprio l'ultimo arrivato, fa l'arcivescono a Canterbury e non nel tempo libero (anche se il sospetto è forte), invece scrive che Bruno viene beccato in pieno plagio del De vita coelitus comparanda di Marsilio Ficino, e che alla terza lezione, avvisato di essere stato scoperto, manda tutto a monte. Però lo offende, lo prende in giro per il suo aspetto, per il suo accento... qui ha ragione Bruno.
"Quell'omiciattolo italiano [...] con un nome certamente più lungo del suo corpo [...] rimboccandosi le maniche come un giocoliere [...] facendoci un gran parlare di chentrum & chirculus & circumferenchia (tale infatti è la pronuncia del suo paese natio) intraprese il tentativo, fra le moltissime altre cose, di far stare in piedi l'opinione di Copernico, per cui la terra gira, e i cieli stanno fermi; mentre in verità, era piuttosto la sua testa che girava, e il suo cervello che non stava fermo."

Altro che plagio. Gira tutto intorno al fatto che Bruno sostiene le teorie di Copernico, e gli oxoniensi no. L'accusa di plagio regge proprio poco, perchè nei libri di Bruno la magia di Ficino fa da sfondo alla nuova teoria astronomica, e questo si sapeva ben prima che lui ne parlasse a Oxford.

Sia come sia, Bruno torna a Londra. E scrive - e pubblica - rapida successione quattro opere fortunate: La Cena de le ceneri, il De la causa, principio et uno, il De infinito, universo e mondi e lo Spaccio della bestia trionfante. E davanti agli inglesi che negano Copernico Bruno aggiunge per buona misura che l'universo è infinito e i mondi pure. Ed è il primo a fare questa affermazione.

Deluso dai britanni torna in Francia, e la situazione politica non è certo quella tranquilla alla quale si era abituato in Inghilterra. Enrico III è incalzato dal duca di Guisa, caporione della fazione cattolica intransigente e appoggiato dal re di Spagna. A farla breve il re ha i guai suoi e non perde tempo a proteggere Bruno (e probabilmente nemmeno a mantenerlo visto che agli inquisitori Bruno racconta di aver vissuto a sue spese in questo secondo periodo parigino).

Comunque il carattere di Bruno è quello che è, e avendo conosciuto Fabrizio Mordente, inventore di un particolare tipo di compasso, si entusiasma per la scoperta e ci scrive sopra quattro dialoghi, nei quali scrive che Mordente è un asino che non si è reso conto dell'importanza della sua scoperta. Lo stesso gioco che aveva fatto con Copernico ne la Cena de le ceneri in pratica, solo che mentre l'astronomo era morto, Mordente era vivissimo e si incazza come una iena. Compra tutte le copie - meno due - dei quattro dialoghi di Bruno e le brucia. Non contento, va da dal duca di Guisa e chiede vendetta contro l'ex frate (eretico, tra l'altro). Ora, aver contro il duca di Guisa, e tutte le sue guardie armate e fanatiche con dietro il regno di Spagna non è roba da poco nemmeno per uno come Bruno. Una persona normale avrebbe deciso - quantomeno - di starsene tranquilla per un po'. Ma Giordano Bruno no.

Non contento indice per il 28 e 29 maggio del 1586 una disputa pubblica al Còllege de Cambrai. Convoca i dottori di Parigi per parlare della natura e di Aristotele, argomenti che tratta nelle tesi che presenta con il titolo di Centum et viginti articuli.
Lo spettacolo comincia - è il caso di chiamarlo così davvero - con il discepolo di Bruno, Jean Hannequin che legge un discorso di apertura del maestro. Alla fine della prolusione Bruno si alza un po' strepitando e invita calorosamente i convenuti a difendere Aristotele, se ne sono in grado. Tutti tacciono, e Bruno urla ancora più forte certo della vittoria contro i saccenti dotti parigini. A rispondergli infine è un avvocato, il quale comincia dicendo che probabilmente gli altri stanno zitti perché non lo ritengono degno di una risposta. L'avvocato contrappone le tesi aristoteliche a quelle - decisamente un po' confuse - del nolano e alla fine dell'intervento invece di rispondere Bruno cerca di andarsene. Ma i francesi allora si incazzano, le palle ancora gli girano e gli dicono: no, bello, tu adesso stai qui e rispondi. E non lo dicono solo, lo trattengono proprio, perchè deve ritrattare le menzogne che ha osato lanciare contro Aristotele. Bruno promette di tornare il giorno dopo. Ovviamente non ci pensa nemmeno. E parte nottetempo per la Germania.






(1)Scrive così tanto che ci sono in Italia - oggi - almeno un paio di persone che sono andate in cattedra (o quasi) con quello che ha scritto Bruno.

puntate precedenti:
Tommaso Campanella
Pico della Mirandola

27 dicembre 2007

Tommaso Campanella

Tommaso Campanella di solito va pari passo con Giordano Bruno e a me la cosa suscita un po' di fastidio. Certo, sono entrambi vittime del Tribunale dell'Inquisizione, martiri del pensiero, - così ci raccontano - ma Bruno finisce bruciato in Campo de' Fiori e Campanella muore con una pensione del re di Francia.

Ecco, non mi pare esattamente la stessa cosa.

Campanella nasce esattamente vent'anni dopo Bruno, nel 1568, ed entra in un convento domenicano in Calabria nel 1582, lo molla nel 1589, a ventun anni, per andare a Napoli, accusato di eresia; viene messo in galera, processato e condannato.

Bruno aveva fatto più o meno la stessa cosa. Nato nel 1548, entra nel convento domenicano di Napoli nel 1563 per andarsene nel 1576, con l'accusa di eresia.

E qui finiscono le somiglianze, almeno secondo me.

Nel 1592 Campanella è a Padova - manca Bruno, che se ne è andato da sei mesi, ma conosce Galileo. Anche in quella città Campanella fa casino e buona parte del 1593 ( e dell'anno successivo) la passa in galera, dove si diletta a scrivere alcune opere. Guardacaso dedicate al papa in carica, Clemente VIII (un personaggio che vi raccomando, tra l'altro...).

Nel 1594 dalle carceri padovane Campanella viene trasferito nelle carceri dell'Inquisizione a Roma. L'accusa? La solita: eresia, più la stesura di un libello definito "empio". E che fa in galera Campanella? Scrive un trattato sul mondo e assegna al papato il ruolo di monarchia universale; così, per puro caso. E per evitare di essere equivocato scrive un altro trattato in cui consiglia ai governanti italiani di non contrastare la monarchia spagnola. (che sempre per caso in quel momento era la più stretta alleata del papato). L'anno successivo viene scarcerato, anche per opera di un protettore influente, Lelio Orsini, un potentissimo aristocratico napoletano, al quale le sue opere - soprattutto le ultime due - erano piaciute assai.

Nello stesso anno anche Bruno è ospitato nelle inquisitorie galere romane, ma lui non esce (chissà perchè).

Nel 1597 Campanella è a Napoli, dove approfondisce la conoscenza delle teorie copernicane insieme a Nicolantonio Stigliola, che aveva conosciuto in galera. Dopodiché si sposta nella sua terra d'origine, la Calabria, dove tra il 1598 e il 1599 organizza una bella rivolta antispagnola (alla faccia del trattato scritto tre anni prima) proponendosi come il messia di una nuova età dell'oro che secondo calcoli astrologici doveva cominciare giusto giusto nel 1600. Contro gli spagnoli Campanella cerca di usare la piccola nobiltà del sud e un'alleanza con i Turchi (che mandano qualche nave, ma troppe poche e troppo tardi). La rivolta finisce nel nulla e un po' di domenicani ribelli e un po' (tanti) contadini coinvolti finiscono nelle galere di Napoli.
Ci torna anche Campanella in galera, e nel febbraio del 1600 - mentre Bruno viene bruciato vivo sulla pubblica piazza, lui simula la pazzia e la scampa un'altra volta.

In galera a Napoli comincia la stesura de La città del sole. La prima versione è in italiano, e resta inedita fino al 1904, mentre la versione latina Campanella la pubblica in Germania nel 1623 e poi a Parigi nel 1637. Come tutte le utopie anche questa non sfugge alla regola: finchè si leggono tutto bene, ma se uno immagina di viverci la prima cosa che gli viene in mente è prendere a bastonate l'autore se solo si avvicina all'agone politico per mettere in atto i suoi propositi. Se quindi Campanella intendeva ribellarsi agli spagnoli per fondare la sua totalitaria repubblica ventisette anni di galera non mi paiono nemmeno una cosa esagerata. Comuque sia stata raccontata, la prigionia non deve essere stata un'esperienza così traumatica se Campanella può scrivere tutta una serie di opere che poi verranno pubblicate - soprattutto in Francia - dopo la sua liberazione. Per altro il nostro non disdegna affatto di scrivere e modificare a seconda del momento (e del protettore): la terza edizione della Civitas solis, quella del 1637, quella pubblicata in Francia, viene adattata e rivista in funzione delle ambizioni di Richelieu (si, proprio il cardinale dei tre moschiettieri).

Sempre in galera, nel 1620, Campanella scrive un altro trattato, dal titolo Monarchia di Spagna, nel quale enuncia la profezia che la monarchia spagnola diverrà l'unica monarchia a governare l'universo mondo, sarà cattolica e avrà al suo vertice il papa. (evidentemente vent'anni di galera l'avevano fatto riflettere sul tentativo di ribellarsi agli spagnoli).

Nonostante questo, gli ingrati spagnoli non se lo filano e allora si vede costretto a rivolgersi di nuovo al papa, che adesso è Urbano VIII, quello della condanna a Galileo per intenderci.
Però proprio agli spagnoli Campanella deve la liberazione nel 1626. E per tutta gratitudine si schiera con il papa.
Che il papa sia anche un acerrimo nemico degli spagnoli per Tommaso non è un problema. Il suo problema era uscire di galera.

Non male per Campanella no? Bruno bruciato, Galileo condannato e lui fa le pozioni per il papa (e riesce a passare pure per un martire del pensiero).

Infatti in un testo pubblicato in Francia nel 1629 Campanella descrive con dovizia di particolari le magie compiute insieme al papa, convinto - il papa - che sarebbe morto a causa di alcune eclissi e degli spagnoli (non chiedetemi come). Lo scopo del domenicano era comunque quello di convertire il papato, che era per lui sempre e comunque il centro del potere, all'uso delle pratiche magiche. E non ci riesce. Però per un po' gode a Roma di grandi favori e di un certa influenza politica. Poi pare che Urbano VIII si renda conto che la magia di Campanella sia una solenne fregatura e il successo svanisce. Nel 1634 con una certa fretta Tommaso molla Roma per rifugiarsi a Parigi, con l'aiuto dell'ambasciatore francese nello Stato Pontificio. Stavolta la molla che lo aiuta è presentarsi ai francesi come un baluardo teorico contro la tirannide spagnola (certo che sti spagnoli con Campanella hanno avuto la loro santa pazienza eh?). A Parigi si muove come un missionario, cercando di strappare alla perfida fede protestante quante più persone possibile, e in alcune lettere sostiene di fare proseliti anche tra gli inglesi. Per la nascita dell'erede al trono di Francia, nel 1638, non esita a scrivere poemi sull'infante, destinato, a parer suo, a governare l'universo mondo. Insomma prima gli spagnoli, poi il papa, poi i francesi, per Campanella c'è sempre qualcuno destinato a diventare imperatore dell'universo.
Naturalmente con il suo aiuto, e naturalmente dietro compenso.
L'anno successivo, convinto di essere vicino alla morte per via di un'eclissi (qualcosa con le eclissi Campanella l'aveva sempre) si chiude nella sua cella in un convento domenicano di Parigi per eseguire una qualche pratica magica che l'aiutasse a sopravvivere.
Evidentemente qualcosa non funziona come dovrebbe perché qualche mese dopo muore.
Pare il suo funerale sia stata un'apoteosi di nobili e di dotti. Che pare strano perché in realtà chi conta a Parigi in quegli anni non se lo fila per nulla, e quando può lo evita.

Mersenne per esempio, il gesuita che in quegli anni - tra le altre cose - tiene le fila dell'Europa intellettuale, corrispondendo con tutti quelli che contano qualcosa, Cartesio per primo, riceve Campanella al suo arrivo a Parigi, perchè gli viene raccomandato da Peiresc. Dopo aver ricevuto il domenicano Mersenne scrive a Peiresc e gli palesa le sue opinioni. Vale la pena riportarle:

"Ho visto il reverendo padre Campanella per circa tre ore e per la seconda volta. Mi son reso conto che egli non può insegnarci nulla in fatto di scienze. Mi era stato detto che egli è molto preparato in musica ma quando l'ho interpellato mi sono accorto che non sa neppure cosa sia un'ottava; tuttavia possiede una buona memoria e una fertile immaginazione."

Che più o meno tradotto secondo me vuol dire: "ah peiresc, ma che ti è saltato in mente di mandarmi sto buzzurro ignorante, proprio perché sei tu l'ho visto due volte, non una, cosamai mi fossi sbagliato la prima. Ma è capace solo di riportare le parole di altri e mi pare pure un po' fissato."

Mi chiedo quante altre persone raccomandate da Peiresc abbia ricevuto Mersenne. Sarei proprio curiosa di saperlo.

Comunque, per non sbagliare Mersenne scrive a Cartesio, che sta in Olanda, e gli chiede se ha voglia di conoscere Campanella. E Cartesio più o meno gli risponde che ne sa abbastanza da essere certo che non ha nessuna voglia di conoscerlo.


Puntate precedenti:
Pico della Mirandola

29 agosto 2007

Pico della Mirandola

Un matto, sostanzialmente. E ricchissimo. Certo, geniale.
Ma anche uno con del culo, se vogliamo. Allora nasce ricco, e va bene. Ha voglia di studiare, e sembra anche bravino, allora la mamma, per evitare che i fratelli maggiori gli facciano le scarpe gli intesta un terzo del ducato e lo manda a Bologna a studiare diritto canonico. Lui quindi se ne frega dell'amministrazione, lascia che se ne occupino i fratelli e si limita a incassare. Studia a Bologna, poi la madre muore e visto che il diritto canonico gli interessa ancora meno dell'amministrazione terriera se ne va a Ferrara, dove conosce Vespasiano Strozzi e Giambattista Guarini. Poi va a Padova e a Pavia. A un certo punto va a Firenze; Firenze in quegli anni è come la Barcellona della movida o la Berlino di Weimar: ci passano tutti quelli che contano, e come può mancare Pico? E' il 1484, e Pico - che ha 21 anni - a Firenze conosce Marsilio Ficino e Angelo Poliziano (pare che il Poliziano avesse una predilezione per i bambini, che gli costa un anno di esilio da Firenze, anno che passa insieme a Pico a girovagare per l'Italia), insomma dopo Aristotele (Padova) conosce Platone.
Non ha un carattere facile Pico. Passionale, irruento, affatto convinto delle divisioni filosofiche e religiose, gira con il suo ebraista personale, Elia del Medigo, e a volte anche con Manuele Adramitteno, che gli insegna il greco. Insomma è una star, con tanto di personal team al seguito. Tanto per non farsi notare si mette a litigare con Ermolao Barbaro, che in quel momento è il massimo conoscitore di Aristotele in un momento in cui Aristotele è considerato il top (ed è anche un grande diplomatico).
Più o meno come se un laureando in fisica si incazzasse con Fermi, sostenendo che non capisce niente di fisica.
Nel 1585 è a studiare a Parigi, e - a parte che da quel momento in poi si sente parigino dentro - comincia a pensare all'individuazione, all'interno delle singole correnti filosofiche, di quei principi comuni che possono portare alla pace universale tra gli uomini. Non ci pensa sopra a lungo comunque, l'anno dopo torna a Firenze e poi va a Roma perchè vuole organizzare a sue spese un convegno tra i sapienti per discutere le novecento tesi che ha stilato. Parigi, Firenze, Roma. Nel tragitto tra Firenze e Roma si ferma ad Arezzo e incontra una sua ex amante, vedova di un Medici, ma risposata a non mi ricordo chi. Pensa bene di "rapirla", chè il viaggio pare monotono altrimenti, infatti si anima subito, perchè gli aretini si alterano, li inseguono, ammazzano i servi di Pico e arrestano lui. A quel punto ovviamente la signora, Margherita, comincia a urlare che è stata rapita. (fa diverso, dicono dalle mie parti). Comunque interviene Lorenzo de' Medici e Pico viene rilasciato.
A Roma va dal papa, con le sue novecento tesi (ha 24 anni) e il suo progetto di convegno, paga tutto lui aggiunge (che gli frega? è il fratello maggiore che si sbatte a Mirandola per far rendere il feudo!).
Le novecento tesi hanno il pomposo titolo di Conclusiones philosophicae, cabalisticae et theologicae e nelle sue intenzioni i partecipanti alla discussione devono trovare i punti di accordo. Come introduzione scrive il De homini dignitate (che, come tutte le prefazioni che si rispettino, è scritta dopo).
Il papa è un po' perplesso. Chi sarebbe questo giovanotto, un rapitore di vedove che gira con un ebraista, pieno di soldi, e che ha l'ambizione di mettere di mettere su una giostra di sapienti in una situazione politicamente e ideologicamente spinosa? Prende tempo, il papa, e istituisce una commissione per avere un giudizio. La commissione decide che sette tesi sono eretiche e altre sei discutibili.
Ma Pico non sta capito, e scrive l'Apologia per contestare le contestazioni. E il papa gli manda a dire, ah si? E allora ti dico che sono eretiche tutte e novecento.
Ma ancora Pico non sta capito. E allora il Papa glielo scrive, e gli scrive anche di smetterla con tutte quelle storie.
Pico capisce che tira una brutta aria e scappa in Francia, ma viene arrestato a Lione. A Parigi un po' si incazzano per l'arresto, interviene anche Carlo VIII e allora dopo un mese viene rilasciato a condizione che torni a Firenze. E che ci rimanga.
Il solito Lorenzo de' Medici gli offre una villa a Fiesole. Lui ci studia, e mentre studia cerca di convincere Lorenzo che è il caso di richiamare a Firenze il Savonarola. (la gratitudine eh?)

Non abbastanza sicuro di avere pochi guai Pico si mette a studiare la cabala (con un personaggio un po' ambiguo, Fabio Mitridate).
Muore il 17 novembre 1494, proprio il giorno in cui Carlo VIII entra a Firenze.
Un mistero la morte, si parla ancora di avvelenamento.

18 aprile 2007

Lo Spinoza di Banfi

Su segnalazione di un'amica, mai abbastanza ringraziata, ho recuperato in una libreria dell'usato una copia di un vecchio libro di Antonio Banfi, Spinoza e il suo tempo. E' un testo che raccoglie lezioni e riflessioni e che, pubblicato nel 1969, non è mai più stato rieditato. A pagina 167 Banfi scrive:

"In questo senso l'emendazione dell'intelletto si comprende nel suo vero significato, in quanto costituisce la base per raggiungere il vero Bene. La ragione non è realizzatrice del passaggio dal mondo del Male al mondo del Bene, ma è la forza che trasfigura la parzialità del Bene in totalità del Bene, purificandolo negli schemi che la ragione consente. Così la ricerca e il raggiungimento del Bene vengono posti all'interno della vita stessa."

e più oltre, nelle pagine seguenti:

"L'aspirazione al Sommo Bene si estende a tutta la società ed è necessario creare le condizioni perché essa possa svilupparsi. Tali condizioni sono, per Spinoza, fondamentalmente quattro: 1) un'etica generale determinata da un sistema di diritti e doveri che costituiscono la base della vita, non solo individuale, ma anche civile e collettiva; 2) la dottrina dell'educazione che avvia i giovani a superare le immagini dei Beni falsi per fissarsi al Bene assoluto; 3) la medicina intesa come cura del corpo perché v'è un rapporto di parallelismi tra la salute dell'anima e la salute del corpo. Per la prima volta nella storia della filosofia si sottolinea l'importanza anche educativa e morale della medicina; 4) la tecnica, intesa come arte che rende possibili i rapporti tra gli uomini, insegna a realizzare il massimo rendimento col minimo sforzo.
La saggezza cui Spinoza vuole indirizzare l'umanità, ha un carattere di immanenza, un tono collettivo; essa è una saggezza costruttiva e dipende dal carattere del Sommo Bene spinoziano: esso non è altro dalla realtà, ma è la realtà stessa."

11 aprile 2007

Hume

Dal Trattato:
"Il difetto comune ai sistemi dei filosofi che hanno voluto sin ora rendersi conto delle azioni dello spirito è stato di supporre nel pensiero una sottigliezza e una raffinatezza che non soltanto eccede la capacità degli animali, ma anche quella dei bambini e della gente comune, i quali sono tuttavia suscettibili delle stesse emozioni e affezioni delle persone di genio e di scienza."

07 aprile 2007

I puntini sulle C

In Della grammatologia Derrida sostiene che il compito della grammatologia, ("gramma" è il termine greco che significa lettera scritta dell’alfabeto) è quello di comprendere il linguaggio a partire dal modello della scrittura, e non da quello della parola; questo anche perché la scrittura rende disponibile il testo al di fuori del contesto originario nel quale fu prodotto e consente di leggerlo nel tempo. Ed è a questo punto che Derrida introduce uno dei suoi concetti-cardine, il concetto di différance, che ha un duplice significato: da un lato sottolinea la differenza tra il testo e l’autore, tra i quali è sempre presente uno “scarto”, una distanza, ed è proprio questa distanza che consente interpretazioni diverse dello stesso testo; dall’altro la différance rimanda al “differimento”, alla distanza temporale, allo “scarto”, questa volta tra il lettore e il testo.

31 marzo 2007

I puntini sulle T

Etica è una parola di origine greca e morale di derivazione latina.
Sostanzialmente significano la stessa cosa: ta ethe (costumi, abitudini) e mores (usanze, consuetudini).

E' però possibile (e doverosa, e scientifica) una distinzione tra etica e morale.
L'etica è una "metamorale"; opera una decostruzione, non ha l'intento di delineare o comporre o fondare le regole di un sistema culturale, ma semmai di affermarne i principi ultimi attraverso una scomposizione delle strutture delle regole che ordinano la condotta.
L'etica riguarda la teoria e la fondazione dei giudizi morali.

Se poi oggi si parla di etica inteso in senso pratico (etica della medicina, etica degli affari, bioetica, etica dell'ambiente, e via discorrendo), noi ce ne freghiamo perchè se la maggioranza delle persone usa le parole a caso, è anche vero che questo blog non ha nessun obbligo formativo.