31 luglio 2006

Un articolo interessante

Sul blog di letturalenta un articolo che vale la pena riproporre; scrive letturalenta:

"In questi giorni sto seguendo la vicenda libanese con interesse e apprensione. Il conflitto fra l’organizzazione terroristica Hezbollah e lo stato di Israele sta causando molte vittime fra i civili libanesi e israeliani, e per questo mi auguro che si arrivi all’armistizio il più presto possibile.

Per farsi un’idea di quello che sta succedendo la fonte di informazione migliore è la blogosfera. Seguendo l’ottimo lavoro di sintesi di Tonibaruch, ho scoperto che in Israele e in Libano ci sono blogger che riportano quotidianamente i fatti commentandoli a caldo, senza filtri politici o di altro tipo.

Leggendo i post e i commenti di questi blog si fanno scoperte interessanti, come per esempio che, nonostante i bombardamenti israeliani, molti libanesi considerano Hezbollah responsabile di quello che sta succedendo..." ma vi consiglio di continuare sul suo blog.

Buona lettura.

30 luglio 2006

Mastroviti

E ancora una volta le riflessioni di Mastroviti sono da leggere.

Bombay 11 luglio 2006

Sette bombe sui treni fanno 200 morti e più di 750 feriti.
Qualcuno se lo ricorda?

Bernard-Henry Lévy

Due articoli apparsi sul Corriere della Sera. Da leggere.

La guerra vista da Israele / 1
Come in Spagna nel '36
Israele era entrato nel Libano meridionale nel 1978 per contrastare e neutralizzare le milizie palestinesi che ne minacciavano la sicurezza. Il contesto era quello della feroce guerra civile che dilaniava il Libano. Le truppe hanno lasciato il Sud del Paese nel 2000, su iniziativa dell'allora premier laburista, ed ex militare, Ehud Barak.

Oggi, 17 luglio, è l'anniversario dello scoppio della guerra di Spagna. Sono passati settant'anni dal putsch dei generali che diede l'avvio alla guerra civile, ideologica e internazionale voluta dal fascismo dell'epoca. E non posso non pensarci, non posso non fare l'accostamento mentre atterro a Tel Aviv. La Siria dietro le quinte... L'Iran di Ahmadinejad pronto all'azione. L'Hezbollah di cui tutti sanno che è un piccolo Iran, o un piccolo tiranno, che non ha esitato a prendere in ostaggio il Libano. E come sfondo, il fascismo con il volto dell'integralismo islamico, quel terzo fascismo che, come tutto indica, sta alla nostra generazione come l'altro fascismo, poi il totalitarismo comunista, stavano a quella dei nostri padri.

Fin dal mio arrivo, fin dai primi contatti con i vecchi amici che dal 1967 non avevo mai visto così tesi né così ansiosi, fin dalla mia prima conversazione con Denis Charbit, militante nel campo della pace, il quale non dubita della legittimità di questa guerra di autodifesa imposta al suo Paese, fin dal primo incontro con Tzipi Livni — la giovane e brillante ministro degli Esteri che tanto contribuì a convincere Ariel Sharon a evacuare Gaza e che ora trovo stranamente disorientata davanti a una geopolitica nuova e sotto molti aspetti indecifrabile per intelletti formati sulle categorie standard del conflitto «arabo-israeliano» tradizionale — sento che nella storia delle guerre d'Israele c'è in gioco qualcosa d'inedito. Come se, appunto, non fossimo più molto sicuri di essere limitati all'ambito d'Israele. Come se il contesto internazionale, il ruolo, ancora una volta, dell'Iran e del suo braccio armato Hezbollah dessero a tutta la faccenda un profumo e prospettive inediti.

Prima di salire verso il fronte nord, ci dirigiamo subito verso Sderot, la città martire di Sderot, alla frontiera di Gaza in guerra con gli alleati Hamas di Hezbollah... Eh sì, la città martire! Le informazioni che giungono dal Libano sono così terribili, l'idea stessa delle vittime civili libanesi è così insopportabile per la coscienza e il cuore, le inquadrature, le immagini del Sud di Beirut bombardata, passate e ripassate di continuo, sono diventate così perfettamente sistematiche che è difficile immaginare, lo so, che anche una città israeliana possa essere una città martire. Eppure... Le strade vuote... Le case sventrate o crivellate da schegge di granate... La montagna di razzi esplosi depositati nel cortile del commissariato centrale, che sono caduti nelle ultime settimane... Oggi, la pioggia di altre granate che si è abbattuta sul centro della città, obbligando le poche persone che avevano l'intenzione di approfittare della brezza estiva a ridiscendere nelle cantine... Poi, religiosamente appuntate su un pannello di tessuto nero nell'ufficio del sindaco, Eli Moyal, le foto di quindici giovani, alcuni bambini, morti negli ultimi tempi sotto il fuoco degli artificieri palestinesi...

Tutto questo non cancella evidentemente il resto. E non sarò certo io a prestarmi al piccolo, sporco gioco della contabilità dei cadaveri. Ma perché ciò che si deve agli uni non sarebbe dovuto agli altri? Come mai si parla tanto poco, in fin dei conti, delle vittime ebree cadute dopo che Israele ha lasciato Gaza? Per me che ho passato la vita a lottare contro l'idea che esisterebbero morti buoni e morti cattivi, vittime sospette e granate privilegiate, per me che, oltretutto, da sempre combatto affinché lo Stato ebraico lasci i territori occupati per ottenere, in cambio, la sicurezza e la pace, c'è una questione di probità e di equità nel giudizio: la devastazione, la morte, la vita nei rifugi, le esistenze spezzate dalla scomparsa di un figlio fanno parte anche del destino di Israele.

Haifa. La mia città preferita in Israele. La grande città cosmopolita dove ebrei e arabi coabitano fin dalla fondazione del Paese. Anch'essa è una città morta. Una città fantasma. E pure qui, dalle alture alberate del Monte Carmel fino al mare, ecco l'urlo delle sirene che, a intervalli quasi regolari, obbliga le rare automobili a fermarsi, gli ultimi passanti a precipitarsi nelle metropolitane e che, soprattutto, rende improvvisamente palpabile l'incubo degli israeliani da quarant' anni. Infatti il problema, mi dice in sostanza Zivit Seri, l'esile, graziosa madre di famiglia i cui modi un po' goffi e l'aria indifesa mi commuovono come mi commuovevano una volta i corpi di Sarajevo, il problema, mi spiega guidandomi fra gli edifici distrutti di Bat Galim, letteralmente «la figlia delle onde», che è il quartiere della città ad aver maggiormente sofferto per i bombardamenti, il problema, dunque, non sono soltanto le persone uccise: Israele vi è abituata. E nemmeno il fatto che qui non si prendono di mira obiettivi militari, ma obiettivi deliberatamente civili: anche questo lo sapevamo. No, il problema, quello vero, è che i bombardamenti fanno intuire quello che accadrà un giorno, non necessariamente molto lontano, dove le stesse testate di missili avranno un doppio potere: primo, di mirare ancora più giusto e di colpire, per esempio, le installazioni petrolchimiche che vedete laggiù, sul porto; secondo, d'essere equipaggiate esse stesse di armi chimiche capaci di seminare una desolazione al cui confronto Chernobyl e l'11 settembre messi insieme appariranno come un piacevole preludio...

Perché in effetti è questa la situazione. Sono questi, visti da Haifa, i rischi dell'operazione in corso. Israele non è entrato in guerra perché gli avevano «violato» le sue frontiere. Non ha lanciato i suoi aerei sul Sud del Libano per il solo piacere di «punire» un Paese che ha consentito a una milizia armata di costruire il suo Stato nello Stato. Ha reagito con tale vigore perché la simultaneità degli attacchi sulle sue città e delle dichiarazioni del presidente iraniano che invocano la cancellazione di Israele dalla carta geografica, e la congiunzione, per la prima volta in un'unica mano, di una volontà chiaramente annientatrice e delle armi che essa richiede, creavano una situazione nuova. Bisogna ascoltare gli israeliani quando ci dicono che non avevano più scelta. E bisogna ascoltare Zivit Seri quando spiega, davanti a un edificio sconquassato da una granata, con lastre di cemento che penzolano da pezzi di ferro ritorti, che era mezzanotte meno cinque, in Israele.

Bisogna ascoltare anche la tristezza di Sheikh Mohammed Charif Ouda, il capo della piccola comunità hamadi la cui famiglia vive qui da sei generazioni, che mi riceve a casa sua, sulla parte alta del quartiere di Khababir, con indosso un shalwar kamiz e un turbante secondo la moda pachistana. Il grande errore di Hezbollah, per lui come per tutti i cittadini della città, è di colpire indiscriminatamente. Di uccidere alla cieca, ebrei e arabi mescolati, come nel massacro alla stazione centrale di Hai
fa, che ha fatto otto morti e venti feriti. Di far regnare un clima di terrore, dunque di continua inquietudine che, facendo le debite proporzioni, mi ricorda come gli abitanti di Sarajevo speculavano all'infinito sul fatto che era bastato un pelo, un caso, un cambiamento di programma all'ultimo minuto, un appuntamento che si prolunga, o più breve del previsto, o miracolosamente spostato in un altro luogo, ed ecco che si trovavano nel punto d'impatto del razzo! L'errore, dunque, è questo. Ma è anche, insiste, nel grande salto indietro che Hezbollah impone a tutto il Medio Oriente rimuovendo di nuovo, come sta facendo, la questione palestinese...

Infatti Charif Ouda ha ragione. Per quanto indifferenti fossero alla sorte degli abitanti di Gaza e Ramallah, almeno i dirigenti arabi tradizionali sapevano ancora fingere. Mentre Nasrallah non si preoccupa nemmeno di questo. La sofferenza e i diritti dei palestinesi ormai non sono, nella sua geopolitica intima, un litigio né un alibi. Basta leggere le sue dichiarazioni e la Carta del suo movimento, basta ascoltare i comunicati assassini passati al canale tv Al-Manar per vedere che, pur sognando una Umma riconciliata di cui l'Iran sarebbe la base, la Siria il braccio armato e Hezbollah la punta avanzata, non ha strettamente più niente a che fare di quella sopravvivenza di epoche passate che è il nazionalismo arabo in generale e palestinese in particolare. Resta il nudo odio. La guerra senza scopo di guerra. Restano tre questioni in sospeso della Jihad in versione persiana della quale la guerra attuale ha appena, in qualche modo, dato l'avvio: Israele, il Libano e, dunque, la Palestina.

Ancora razzi. Ho lasciato Haifa per San Giovanni d'Acri, poi, lungo la frontiera libanese, per una successione di villaggi, kibbuz e altri moshavs che vivono, da dieci giorni, sotto un vero e proprio diluvio di fuoco, per non dire un temporale d'acciaio che cade, oggi, su questi paesaggi biblici dell'Alta Galilea. «Non ho mai saputo bene cosa bisognasse fare in questi casi», mi dice sforzandosi di sorridere il colonnello Olivier Rafovitch mentre ci avviciniamo a Avivim e il fracasso delle esplosioni sembra farsi più vicino. «Si tende ad accelerare, non è vero? A dirsi che l'unica cosa da fare è allontanarsi al più presto da quest'inferno... Ma è da idioti, a pensarci bene. Infatti, chi sa se non è proprio accelerando che si va incontro a...?».
Fatto sta che, comunque, ci affrettiamo. Attraversiamo di corsa un villaggio druso deserto. Poi un grosso borgo agricolo di cui non ho il tempo di annotare il nome — forse Sasa — e che è stato evacuato. Poi una zona completamente scoperta dove un katiuscia ha appena sfondato la strada. E' pazzesco vedere i danni, visti da vicino, che questi ordigni creano. Ed è pazzesco il baccano che possono fare quando ce ne stiamo zitti a spiare il rumore della loro traiettoria che si mescola a quello dell'automobile: colpo sordo e senza fumo del razzo caduto in lontananza; detonazione stridente, esasperata, quando passa sopra le teste; vibrazione lunga, come una nota grave, quando scoppia vicino e fa tremare tutto attorno a voi...

Forse, del resto, non bisognerebbe più dire roquette, razzo. In inglese non so. Ma in francese, o piuttosto in «franglese», c'è nella parola qualcosa che, come nulla fosse, riduce l'oggetto e implica una visione non del tutto attendibile, menzognera, di questa guerra. Si dice insalata di roquette, rughetta, in italiano... O croquette per i cani, crocchette... O roquet, botolo, piccolo cane più rumoroso che cattivo, che vi mordicchia i polpacci e avrebbe, di fronte a lui, il cattivo molosso israeliano... Allora, perché non dire granata, obus? O missile? Perché non rendere, utilizzando la parola giusta, tutta la sua dimensione di violenza barbara a questa guerra voluta dagli Iranosauri di Hezbollah e da loro soltanto? Politica dei termini. Geopolitica della metafora. La semantica, in questa regione, è più che mai una faccenda di morale.

Gli israeliani non sono dei santi. Ed è evidente che sono capaci, in una situazione di guerra, di operazioni, manipolazioni, dinieghi machiavellici. Eppure, un segno indica che questa guerra qui non l'hanno voluta ed è caduta loro addosso come una cattiva sorte. Questo segno è la scelta, al posto di ministro della Difesa, dell'ex militante di La Paix Maintenant, «Pace adesso», che da sempre ha aderito alla causa della spartizione della terra con i palestinesi, dirigente della centrale sindacale Histadrouth e assai meglio preparato, in linea di principio, a fare scioperi che a fare la guerra: è Amir Peretz. «Stanotte non ho dormito», comincia, pallidissimo, gli occhi arrossati, nel piccolo ufficio dove ci riceve, insieme con l'editorialista di Haaretz, Daniel Ben Simon; ufficio che non è nel Ministero ma nella sede del Partito laburista. «Non ho dormito perché ho passato la notte ad aspettare notizie di un'unità di nostri ragazzi caduti, ieri pomeriggio, in un'imboscata, nel settore libanese...». Poi, dopo che un giovane aiutante, pure lui dall' aspetto di militante sindacale, gli ebbe teso e poi ripreso un telefono da campo da cui il ministro aveva ascoltato, senza una parola, gli occhi bassi, gli spessi baffi tremolanti per un'emozione mal controllata, le notizie che aspettava: «Non diffondete subito, per favore, perché le famiglie non sono al corrente; ma tre di loro sono morti e non sappiamo nulla del quarto, è terribile...».

In quarant'anni, sono parecchi i ministri della Difesa di Israele che ho conosciuto. Da Moshe Dayan a Shimon Peres, Itzak Rabin, Ariel Sharon e altri ancora, ho visto succedersi eroi, semieroi, strateghi geniali e di talento e persone abili. Quello che non avevo mai visto è un ministro, non certo così umano (che la vita di un qualsiasi soldato abbia un prezzo inestimabile è una costante nella storia del Paese), né così civile (neanche Shimon Peres, dopotutto, aveva un vero passato militare), ma così poco formato, in compenso, a comandare un esercito in tempi di guerra (la sua prima decisione, fatto unico negli annali, non fu forse di amputare del 5% il budget del proprio ministero?), quello che non avevo mai visto è un ministro della Difesa che corrisponde così esattamente alle famose parole di Malraux sui comandanti del miracolo che «fanno la guerra senza amarla» e che, proprio per questa ragione, «finiscono sempre per vincerla». Amir Peretz, come i personaggi di André Malraux, vincerà. Ma il fatto che sia stato nominato indica che Israele, dopo i ritiri dal Libano e da Gaza, pensava di entrare in una nuova era, dove occorreva preparare la pace, non la guerra...
( Traduzione di Daniela Maggioni)
(1- Continua)

La guerra vista da Israele / 2
Contro le falangi del male
La guerra di Israele contro Hezbollah come la guerra di Spagna. Nel 1936, è la tesi espressa da Lévy nella prima parte del reportage, i fascismi si coalizzarono a sostegno di Franco e delle sue «falangi» inducendo le democrazie e il comunismo a unirsi per contrastarli. La guerra di Spagna prefigurò così la Seconda guerra mondiale. I fascismi di allora hanno un parallelo nel «fascismo islamico» espresso dall'Iran del presidente Ahmadinejad e dalle milizie sciite libanesi di Hezbollah.
Incontro l'ex generale Ephraim Sneh, laburista e sostenitore, non meno del ministro della Difesa Amir Peretz di cui oggi è il vice, di una pace negoziata con i palestinesi, in un luogo detto Coah Junction, letteralmente Crocevia della Forza, che agli occhi dei cabalisti è uno dei posti in cui, giunto il momento, deve manifestarsi e passare il Messia... In gioventù, Sneh è stato ufficiale medico presso i paracadutisti, comandante di un'unità di élite di Tsahal (l'esercito israeliano, ndr), poi, dal 1981, responsabile della Zona di Sicurezza d'Israele nel Sud del Libano. Ha lo stesso fisico del tranquillo padre di famiglia, cordiale e al tempo stesso burbero, che hanno i generali di riserva d'Israele quando riprendono servizio: nella circostanza, una sorta di missione di controllo per la Commissione di Difesa della Knesset. Perché quest'appuntamento? Perché mi ha convocato proprio lì? In un paesaggio di pietre, reso incandescente dal sole, dove non vedo, a parte noi due, anima viva? Vuole mostrarmi qualcosa? Spiegarmi un dettaglio di strategia che non poteva apparirmi se non da qui? Mi porterà ad Avivim che è, un chilometro più a nord, il nodo della battaglia in corso? Vuole parlare di politica? Mi parlerà, come Peretz, come la Livni, come quasi tutti, dello scoraggiamento d'Israele davanti alla scarsa ambizione di una Francia che avrebbe un così grande ruolo in Libano e in Siria; che potrebbe, se lo volesse, rimettere in piedi il Paese dei Cedri imponendo, veramente, che fosse applicata la risoluzione 1559; e che preferisce, purtroppo, limitarsi all'apertura di corridoi umanitari? Sì, mi dice questo.

En passant. Però ben presto mi accorgo che, se mi ha fatto venire fin qui, è per parlarmi di una faccenda che lo appassiona, che non ha niente a che vedere con questa guerra: altro non è che il rapimento, la prigionia, la decapitazione di Daniel Pearl... Una conversazione su Danny Pearl a un tiro di schioppo da un campo di battaglia... Un ufficiale letterato il quale decide che nulla è più urgente se non discutere, con le nostre automobili immobilizzate in una fornace e in mezzo ai sassi, della Jihad, dell'Islam dei Lumi, dell'impasse della teoria di Huntington sullo scontro delle civiltà, di Karachi e delle sue moschee terroriste... Nemmeno questo avevo mai visto. C'è voluta una spedizione sulle prime linee di una guerra dove Israele e il mondo sono più che mai legati per concepirne l'idea.

Al tempo stesso... C'è da credere che talvolta la Storia abbia meno immaginazione di quanto si vorrebbe e che i vecchi generali non hanno poi riflessi tanto cattivi. Il fatto è che, a pochi chilometri più a sud, nel villaggio di Mitzpe Hila, vicino a Maalot, le circostanze mi offrono una sconvolgente reminiscenza dell'affaire Pearl. Mi trovo nella casa dei genitori del soldato Gilad Shalit, la cui cattura da parte di Hamas, il 25 giugno scorso, fu una della cause occasionali di questa guerra. Mi interrogo sull'ironia della Storia che ha fatto sì che un giovane, senza qualità particolari e senza importanza per la collettività, si sia trovato a scatenare questo enorme evento. Siamo lì, al sole, sul prato dove Gilad giocava da bambino e dove sentiamo cadere, vicinissimi, i katiuscia, ai quali gli Shalit, solo loro, sembrano non prestare più attenzione. Siamo seduti attorno a un tavolo da giardino a discutere sulle ultime notizie portate dall'inviato delle Nazioni Unite, giunto qui poco prima di me, e intanto penso che, se questa guerra dovesse durare, se l'effetto- Iran dovesse imprimerle una portata e un'estensione nuove, quel modesto caporale sarà il Francesco Ferdinando di una Sarajevo che si chiamerà Kerem Shalom...

Ma che succede? E' forse l'espressione di Aviva, la madre, quando le chiedo cosa sa delle condizioni di prigionia del suo ragazzo? Quella di Noam, il padre, quando comincia a spiegarmi, con un povero barlume di speranza negli occhi, che suo figlio è francese da parte di una delle nonne, Jacqueline, nata a Marsiglia, e spera quindi che il mio governo unirà i propri sforzi a quelli di Israele? E' forse il dibattito, che indovino nel suo intimo, fra il padre pronto a qualsiasi compromesso per ritrovare l'adorato figlio e l'ex soldato di Tsahal che non cede al ricatto dei terroristi? E' la visita della camera del caporale quand'era piccolo? E' tutta la casa così somigliante, improvvisamente, a quella di Danny Pearl, a Encino, in California? Fatto sta che mi sento invaso da una sensazione di déjà vu e che, sui volti di Aviva e Noam si sovrappongono in me quelli di Ruth e Judea Pearl, i miei amici, il padre e la madre coraggiosi di un altro giovane, simile a questo, rapito da quei folli di Dio il cui programma ideologico non era molto diverso da quello di Hamas.

Risalire verso Avivim. Poi, da Avivim fino a Manara, tenuta dagli israeliani, dove hanno installato, in un circo di duecento metri di diametro, un campo di artiglieria con due cannoni montati su cingolati che bombardano, dall'altra parte della frontiera, gli arsenali, il comando e i lanciarazzi di Maroun al-Ras. Tre cose qui mi colpiscono. L'estrema giovinezza degli artiglieri: vent'anni; forse diciotto; la loro aria stupefatta quando parte il colpo, come se ogni volta fosse la prima; i loro scherzi da ragazzi quando l'amico non ha avuto il tempo di otturarsi le orecchie e la detonazione lo stordisce; poi, al tempo stesso, il lato grave, compreso, di chi si sa agli avamposti di un dramma immenso, e che lo sconcerta. L'aspetto indolente, stavo per dire trasandato, e l'aria sfaccendata di una piccola compagnia che mi ricorda irresistibilmente il gioioso caos dei battaglioni di giovani repubblicani descritti, ancora una volta, da André Malraux: un esercito più simpatico che marziale; più democratico che sicuro di sé e dominatore; un esercito che qui, in questo caso, mi pare agli antipodi dei battaglioni di bruti, o di Terminators senza principi né pietà, che tanto spesso hanno descritto i grandi mass media europei.

Poi quello strano veicolo, esteriormente simile a due cannoni autotrasportati, ma posteggiato in disparte e che non spara: questo terzo veicolo è una sala macchine mobile, dove si entra, come in un sommergibile, da una torretta e una scala esterna; dentro vi sono sei uomini, certi giorni sette, che si danno da fare attorno a una batteria di radar, computer e altri apparecchi di trasmissione il cui ruolo è di raccogliere informazioni per poi determinare i parametri di tiro da trasmettere agli obici; la verità è che all'origine del fuoco israeliano c'è un vero e proprio laboratorio di guerra dove soldati-scienziati, col naso incollato agli schermi, tentando d'integrare i dati più imponderabili che arrivano dal campo, sviluppano un'intelligenza ottimale per calcolare la distanza del bersaglio, la sua rapidità di spostamento e, last but not least,
il grado di prossimità di civili: almeno qui, ne sono testimone, l'obiettivo prioritario è di evitarli.

Con David Grossman c'incontriamo in un ristorante all'aperto di Abu Gosh, davanti ai monti di Gerusalemme, che mi sembra un Eden dopo l'inferno degli ultimi giorni: sole sfolgorante, rumore d'insetti che non è più quello degli aerei né dei cingolati dei carri armati, un soffio di spensieratezza, un venticello leggero.... Parliamo del suo ultimo libro che è una rilettura del «mito di Sansone». Di suo figlio, appena arruolato in un'unità di carristi e per il quale sento che trema. Commentiamo una statistica che ha letto e lo preoccupa: secondo l'articolo, quasi un terzo di giovani israeliani avrebbero perso la fiducia nel sionismo e ricorrerebbero a certe astuzie per farsi esentare dal servizio militare. Poi naturalmente discutiamo della guerra, e del grandissimo malessere in cui, come gli altri intellettuali progressisti del Paese, sembra averlo fatto sprofondare... Da un lato, mi spiega Grossman, c'è la vastità delle distruzioni, il rischio dell'avvampare di una guerra civile in Libano; c'è l'errore di essersi imposti un traguardo così arduo (distruggere Hezbollah, rendere le loro infrastrutture e l'esercito innocui...) che persino una mezza vittoria rischia, giunto il momento, di avere il profumo di una sconfitta. Ma, dall'altro, c'è l'attacco sorpresa di Hezbollah contro un Paese, Israele, che si era successivamente ritirato dal Libano e poi da Gaza; c'è il diritto d'Israele, come di qualunque altro Stato del mondo, a non rimanere con le mani in mano di fronte a un'aggressione così folle, immotivata, gratuita; c'è il fatto, insiste, che il Libano è il Paese d'accoglienza di Hezbollah, il suo alleato; un Paese, al tempo stesso, al cui governo Hezbollah partecipa pienamente. Dall'altro lato, dunque, c'è il fatto che la risposta israeliana non poteva esser portata se non sul suolo libanese...

Osservo David Grossman. Scruto il suo bel volto di ex bambino prodigio della letteratura israeliana invecchiato troppo presto e divorato dalla malinconia. Non è soltanto uno dei grandi romanzieri israeliani odierni. E' anche, con Amos Oz, Avraham Yehoshua e qualcun altro, una delle coscienze morali del Paese. E credo che la sua testimonianza, la sua fermezza, il suo non cedere sulla giustezza della causa d'Israele dovrebbero convincere gli animi più perplessi.

Infine, Shimon Peres. Non volevo terminare questo viaggio senza andare, come ogni volta, ma stavolta più che mai, da Shimon Peres. E' Daniel Saada, un amico di altri tempi, membro fondatore di Sos Razzismo, stabilitosi in Israele e diventato anch'egli suo amico, a portarmi da lui. «Shimon», come tutti lo chiamano qui, ha 84 anni. Ma non ha perso nulla della sua prestanza. Né del suo magnifico aspetto di principe-abate del sionismo. Ha sempre lo stesso viso, grande fronte e grandi labbra, che sottolinea l'autorità melodiosa della voce. A momenti, ho persino l'impressione che abbia voluto incorporarsi una leggera amarezza nel sorriso, un bagliore nello sguardo, un portamento e, talvolta, di accentuare le parole che non erano proprie ma del suo vecchio rivale Yitzhak Rabin. «Tutto il problema — comincia — è il fallimento di quello che uno dei vostri grandi scrittori chiamava la strategia da stato maggiore. Nessuno, oggi, controlla più nessuno. Nessuno ha il potere di fermare né di dominare nessuno. Di modo che noi, Israele, non abbiamo mai avuto tanti amici come adesso; amici che però, nella nostra Storia, non sono mai stati così inutili. Salvo...».

Peres prega la figlia, una signora di una certa età che assiste alla conversazione, di andare, nell'ufficio vicino, a cercare due lettere di Abu Mazen e Bill Clinton. «Sì, salvo che voi li avete, gli uomini di buona volontà. I miei amici. Gli amici dei Lumi e della pace. Quelli che né il terrorismo né il nichilismo né il disfattismo porteranno mai a rinunciare. Noi abbiamo un progetto, sa... Sempre lo stesso progetto di prosperità, sviluppo condiviso, che finirà per trionfare... Ascolti...». Shimon ha fatto un sogno. Shimon è un giovane uomo di 84 anni il cui invincibile sogno dura, in effetti, da trent'anni e la presente impasse, lungi dallo scoraggiarlo, sembra misteriosamente stimolarlo. L'ascolto, dunque. Ascolto questo Saggio d'Israele spiegarmi che occorre simultaneamente «vincere questa guerra imposta», squalificare il «quartetto del male» costituito da Iran, Siria, Hamas e Hezbollah e aprire «vie di parola e di dialogo» che, un giorno o l'altro, finiranno pur per portare da qualche parte. Ascoltandolo, riudendo queste profezie vecchie ma che oggi, non so perché, mi sembrano avere un coefficiente nuovo di evidenza e di forza, mi metto a immaginare pure io la gloria di uno Stato ebraico che osasse, nello stesso tempo, quasi lo stesso gesto, dire e soprattutto fare le due cose: agli uni, ahimè, la guerra; agli altri, una dichiarazione di pace che, all'improvviso, non lascerebbe più scelta.

(traduzione di Daniela Maggioni)


29 luglio 2006

Troppo divertente

out3n.camera.it (Camera Dei Deputati)

Italy, 17 returning visit

Date Time WebPage
26th July 200610:08:35ipazia.blogspot.com/
www.google.it/search?hl=it&q=Franco Giordano a Telecamere&meta=

28 luglio 2006

Così

Solo per dire che sono connessa dall'auto. (si qualcuno potrebbe pensare che sono affetta da una leggerissima forma di internet addiction).

27 luglio 2006

Quando il dito indica la luna

Congo
Cambogia
Uzbekistan

così, tre paesi a caso, presi da google news:

mentre il responsabile esteri del Pdci Iacopo Venier avrebbe voluto "un intervento deciso per bloccare i bombardamenti e le azioni militari israeliane". (da repubblica)

26 luglio 2006

Decadenza dell'Occidente

In questa fine di luglio calda (finalmente) e afosa: ho avuto un'intuizione geniale che spiega, almeno in parte, la decadenza della civiltà occidentale.
E devo ringraziare la signora Bx che - nonostante sia persa nel suo esotico paese non meno che dietro ai "big bamboo" (faccio progressi eh, fb?) - non manca di connessione internet e di cellulare. Il che significa che martella di mail, di sms, di messaggi vari l'universo mondo sui bombardamenti a beirut e sul povero oriente, aggiungendo geremiadi sparse sui mali e gli equivoci nella comprensione del mondo.
Che c'entra, direte voi, con la decadenza dell'Occidente.
C'entra, c'entra.
E la colpa è di Lenin; non era lui quello convinto che le cuoche potessero imparare a governare lo stato?
E' finita che le cuoche rompono l'anima e lo stomaco con la nouvelle cousine e le insegnanti/turiste in fregola sono convinte di aver compreso il mondo, dalla piscina di un albergo di lusso che possono permettersi solo fuori dall'Europa. E tanti saluti ai bambini di Gaza.

25 luglio 2006

Uomini, quand'anche piccoli

"Senti, ma tu sai cosa significa la parola no?"
"No"

23 luglio 2006

Ridicoli

Su repubblica di ieri c'è scritto che Giordano vuole la fiducia altrimenti non è in grado di garantire il voto dei suoi eletti.
Insomma: per via di una legge elettorale schifosa e fascista non abbiamo potuto scegliere che eleggere, e chi ha scelto non è in grado di controllare le sue scelte. Hanno solo la fortuna che dall'altra parte c'è il nano peloso e una serie di razzisti...
A seguire il consiglio di Sofri sono sempre in tempo comunque (o anche quello del padrino, volendo). Si dimettano e lascino il posto a chi ha la coscienza meno pura e il portafogli meno pieno.

21 luglio 2006

Una considerazione fuori dal coro

Perché questo è l'articolo di Uriel - blog Il cammino del lupo - che potete trovare qui.

Sempre a proposito di proporzioni (e di D'Alema)

Bernard-Henry Levy sul Medioriente

Non voglio certo trasformare questo blog in una rassegna stampa, ma l'articolo di Bernard-Henry Levy apparso sul corriere della sera di ieri mi sembra interessante da riproporre (e magari lo fa anche qualcun altro).

ISRAELE E L'OCCIDENTE
Se i katiuscia minacciassero noi
di Bernard-Henry Levy


Una parola stranamente ricorrente nei commenti, in Europa, sulla risposta israeliana alla dichiarazione di guerra dell’Hezbollah è «sproporzione»
Non sono certo un grande esperto in affari militari. E anch’io penso, è evidente, che ognuna delle vittime civili, pudicamente chiamate dagli strateghi «danni collaterali», sia una tragedia. Detto questo, avrei comunque voglia di chiedere a coloro che parlano così come reagirebbero se un commando di terroristi venissero per esempio sul territorio di Francia, non tenendo assolutamente conto delle nostre frontiere, se non persino negandole, a rapire soldati francesi. Come reagirebbero se Strasburgo, Lilla o Lione si trovassero, come Sderot, Ashqelon e adesso Haifa, sotto una pioggia di katiuscia che fanno decine — su scala francese centinaia — di altre vittime civili il cui martirio, mi pare, equivale a quello dei libanesi. E se la capitale del nostro Paese si trovasse a portata di missili a medio raggio Zelsal 1, forniti da artificieri iraniani debitamente inviati in missione da Ahmadinejad e ci dicessero, come ha detto a proposito di Tel Aviv il segretario generale dell’Hezbollah, Hassan Nasrallah, che colpire Parigi non è più un’ipotesi del tutto teorica, ma un obiettivo bellico prioritario e un’impresa santa. Avrei voglia di chiedere quale fosse, secondo loro, la reazione «proporzionata», dal momento che l’autore di questo tipo di dichiarazioni e degli attacchi che le accompagnano è notoriamente ispirato, finanziato, armato da un paese il cui presidente non ha mai fatto mistero della propria determinazione a dotarsi dell’arma atomica e, con o senza tale arma, a cancellare dalla carta geografica uno Stato ebraico intrinsecamente perverso e criminale.

Ancora, avrei voglia di chiedere come sarebbe stato possibile imbastire una risposta tale da risparmiare un Libano ridiventato, per sua disgrazia, l’ostaggio di ideologi e capi di guerra irresponsabili: gente che non ha smesso di costruirvi, in flagrante contraddizione con la sua cultura, la sua genialità, le sue tradizioni di tolleranza, di cosmopolitismo e di pace, uno Stato nello Stato che è, innanzitutto, uno Stato terrorista che minaccia tutta la regione e, naturalmente, i libanesi stessi. Avrei voglia di chiedere come si potesse evitare d’intervenire in Libano visto che il governo di questo paese conta molti ministri Hezbollah; che il suo presidente, Emile Lahoud, afferma, appena può, la sua solidarietà di principio con gli obiettivi e la causa di Hezbollah; che le sue strade servono al trasporto di razzi, lanciamissili e truppe verso le linee di fronte e i fortini tenuti da Hezbollah; e che a partire dalle stazioni radar dei suoi aeroporti, come da quello di Beirut, vengono localizzati i bersagli marittimi israeliani che le batterie Hezbollah colpiscono, come la settimana scorsa.

E poi, «sproporzione» per «sproporzione», come schivare la vera, la sola domanda valida, che è di sapere chi ha fatto, oggi, i progressi concreti dello spirito di moderazione e di misura che ognuno auspica: gli israeliani, i quali, pur non essendo angeli, per carità, si sono ritirati dal Libano da sei anni, da Gaza da sei mesi e sono pronti, in grande maggioranza e a costo di ricevere, come in questo momento, valanghe di bombe sulle loro città e sui loro villaggi, a ritirarsi dalla Cisgiordania perché vi si installi lo Stato palestinese in formazione; o i folli di Dio che se ne infischiano altamente della formazione di un qualsiasi Stato palestinese e non hanno, in realtà, nessun’altra preoccupazione se non di veder scomparire Israele?

Infatti, è proprio qui la discriminante. Etale è la posta in gioco, la sola, di una guerra quasi più radicale, in questo senso, delle precedenti guerre israelo-arabe.

Da un lato, i sostenitori della coabitazione di due popoli che apprendano, con il tempo, senza illusioni né angelismo, a negoziare, a fare la pace e poi, forse, un giorno, ad andare d’accordo e a volersi bene: sono, in Palestina, gli amici di Mahmoud Abbas; sono, nel mondo arabo in generale, i dirigenti e i rappresentanti, in numero crescente, dell’opinione pubblica illuminata; ed è l’essenziale della popolazione d’Israele, sia essa di destra o di sinistra, finalmente consapevole che non esiste, a termine, altra strada se non quella della spartizione della terra.
Dall’altro, gli oltranzisti di una causa che ormai ha un rapporto lontanissimo e con la causa nazionale palestinese e con la sofferenza che la sostiene: è, a Gaza, l’Hamas di Khaled Mechaal ed è, qui in Libano, l’Hezbollah. I due pilastri di un «fascislamismo» di cui non si ripeterà mai abbastanza che i burattinai si nascondono a Damasco e soprattutto a Teheran e i cui responsabili sul campo sono palesemente pronti, se la vittoria finale è a questo prezzo, a battersi fino all’ultimo libanese, palestinese e, certo, fino all’ultimo ebreo.
20 luglio 2006

Su Israele

è da leggere l'illuminante articolo di rosalucsemburg

19 luglio 2006

Adesso è così



Splendida!

Era così


Ho passato lo scorso week end a Roma.
Tra le splendide cose che ho visto c'è il restauro
dell'Ara Pacis.
Era come la vedete qui sopra.

Un vizio antico

Così, mentre in Senato i senatori di Rifondazione plaudono e applaudono le parole del mafioso pluriprocessato Andreotti (pag. 9 di repubblica di oggi), l'Italia si riscopre un paese schiavista.
Avanti compagni, lo schifo non muore mai.

18 luglio 2006

Adriano Sofri "Cari pacifisti, basta sciocchezze"

Su repubblica di ieri (17 luglio) Adriano Sofri scrive un editoriale bello e sofferto. Vale la pena dargli la massima diffusione possibile e lo riporto per intero:

Cari pacifisti, basta sciocchezze
Si può perdere la testa, con le migliori intenzioni. Gino Strada dice che in Afghanistan oggi si sta peggio che sotto i taliban. Si stava meglio quando si stava peggio. Dice che, se il governo cadesse sul problema della guerra, lui brinderebbe. La guerra di cui parla è l'intervento della Nato, autorizzato e ora implorato dall'Onu, in Afghanistan. Il governo di cui parla è il chiaroscuro governo di centrosinistra. Gino Strada è molto ammirato, e se lo è meritato. Anch’io lo ammiro, sul serio. Però so che dice delle sciocchezze colossali. L'ammirazione che si è guadagnato gli gioca un brutto scherzo: gli fa spendere il suo credito sostenendo presso un pubblico generoso quelle sciocchezze, diametralmente opposte agli ideali che vuole perseguire.

Strada cura le persone che hanno bisogno di cure. Spiega che non tocca a lui occuparsi di che governo sia in sella. Un ferito è un ferito, un malato è un malato, che si tratti di un bambino o di un uomo adulto, di un talebano o di un marine, di un signore della guerra o di una madre di famiglia. Così dev'essere. Strada protesta che il suo amore per la pace non è “di sinistra radicale”, né di altro colore. L'amore per la pace non ha colore o li ha tutti, come l'arcobaleno. Così dev'essere. Naturalmente, nella realtà le cose non vanno così nitidamente. Nella realtà si viene a patti con la situazione. Far funzionare un ospedale sotto i taliban può costringere a compromessi che sembreranno accettabili o no: non fosse che il compromesso inevitabile di rinunciare a denunciare l'infamia del regime dei taliban. Accettabile, perché non spetta al chirurgo la denuncia di un regime politico: e nessuna persona sensata glielo rimprovererà. Al contrario, ammirerà il modo in cui il medico sacrifica il proprio orgoglio a una causa più nobile e altruista. L'altro ieri, intervenendo all'assemblea romana "contro la guerra", Strada ha parlato del governo Karzai come di “un regime di criminali e fondamentalisti”. Vorrei chiedergli, senza nessuna malevolenza, se abbia mai pronunciato un giudizio del genere durante il regime del mullah Omar: che era per antonomasia “un regime di criminali e fondamentalisti”, escluso dalle stesse Nazioni Unite, che pure hanno così gran braccia.

Oggi Strada incita a una campagna politica in nome del fatto che il regime attuale in Afghanistan è peggiore di quello dei taliban. C'è qui un'incoerenza, anche quando si ammettesse che l'assunto sia vero: ed è l'ultima delle cose che una persona appena ragionevole possa ammettere. Ci sono oggi manifestazioni contro la presenza di truppe internazionali in Afghanistan. Non ci furono ieri manifestazioni contro il regime dei taliban in Afghanistan. Strada, o altri, possono replicare che oggi c'è una guerra, e il regime dei taliban assicurava comunque una pace. Non è vero.

Una guerra intestina, anche dopo la cacciata degli invasori sovietici, non era mai cessata in Afghanistan. Il regime taliban, tirannide oscena quanto poche altre, forniva anche un territorio e una parodia di Stato al terrorismo di Al Qaeda. Strada non si stanca di ripetere che gli americani foraggiarono a suo tempo Bin Laden e i taliban. E’ vero: ma che cos'ha a che fare con l'eventualità di un ritorno incontrastato dei taliban a Kabul?

Strada si batte per la messa al bando del la guerra, e rifiuta di lasciarsi etichettare. Altri non esitano a dare al loro impegno un colore di sinistra. Anzi, pensano che pacifismo e sinistra siano oggi sinonimi, e anche che pacifismo e nonviolenza lo siano. Ci sono in questa bella illusione dei corto circuiti che danno la scossa. Prima ancora, c'è un equivoco micidiale. Perché una sinistra devota alla libertà e alla pace manifesterebbe non per liquidare, ma per migliorare la presenza di una forza internazionale legittima in Afghanistan: e legittima non vuol dire solo autorizzata dall'Onu - condizione che è oggi data senza riserve - ma proporzionata nel metodo e nei fatti al compito che proclama di voler svolgere, la protezione dei diritti umani e della democrazia. Dire no, senza alcuna distinzione, a qualunque impiego della forza, in Iraq o in Afghanistan, a Timor o in Bosnia o al confine israelo-libanese, è uno slogan infantile, un sacrificio tributato alla consolazione dell'assolutezza. Il punto più debole della missione afghana sta nella mancata valutazione e discussione pubblica, in Italia, del fine dell'intervento e della sua efficacia; e, rispetto ai paesi alleati, nella inesistente o insignificante voce italiana in capitolo. La stessa misconoscenza, che conduce a una presenza militare inerte e inadeguata, viene lamentata negli altri paesi che hanno in Afghanistan una forza significativa, come la Francia.

Noi disponiamo di qualche buon reportage (i lettori di Repubblica conoscono gli ottimi di Guido Rampoldi, delle opinioni, divenute un increscioso duello, di Strada ed Emergency da una parte e Alberto Cairo dall'altra, e poco più. I nostri militari, di ogni grado, sono assenti, e non si capisce proprio perché, dato che la loro esperienza non può che essere istruttiva. Solo una malintesa chiusura da corpo separato, e un'ancor più malintesa subordinazione al primato della politica e della sua vanità, fa sì che dei militari senz'altro in grado di valutare in modo serio le ragioni e i modi di una presenza (o di un ritiro: il generale Mini, per esempio, fresco pensionato, sembra favorevole al ritiro, e con argomentazioni di merito) non figurino nella discussione italiana, e siano sostituiti da opinionisti televisivi di ruolo.

Proverò per un'ennesima volta a dire a interlocutori persuasi di essere i titolari in esclusiva dell'avversione alla guerra, e gli ultimi resistenti della fedeltà ai principii (dentro la "casta politica": perché, quanto al popolo, sono convinti di averlo largamente dalla propria), quale considerazione agisca per me con una forza di principio. Lo dirò con un argomento preso a prestito, con una piccola forzatura retorica, dalla retorica del buon chirurgo. Le persone soffrono di malattie e di ferite, e hanno bisogno di un pronto soccorso, un ospedale, medici e infermieri capaci e appassionati. Soffrono anche, però, dell'oppressione, della prepotenza, del carcere domestico per le donne, dell'esclusione dalle scuole per le bambine, delle frustate per chi ride a gola piena, della galera per i dissidenti, dell'umiliazione di desideri e diritti. Nei confronti dell'oppressione di governi brutali contro i loro stessi sudditi, della sofferenza impressa nei loro corpi e nelle loro anime, noi, loro simili privilegiati, siamo come altrettanti medici senza frontiere, altrettanti soccorritori d'emergenza, tenuti a occuparcene, a solidarizzare, a prendercene cura. E come lo sappiamo oggi perché abbiamo ripensato alla nostra storia, e perché il mondo ci si è così rimpicciolito addosso se fossimo tutti legati a una deontologia, a un universale giuramento di Ippocrate. Il quale ci impegna a mettere la guerra al bando dalla vicenda umana, e, proprio per questo, a metterle sosta o fine dove infuria, a intervenire con una legge internazionale, un tribunale internazionale, una polizia internazionale, dove sia violata l'incolumità di comunità e minoranze e persone, e sia schiacciata la loro dignità. Negare questo, o peggio non vedervi se non un capzioso gioco di parole, equivale a negare che dentro la sovranità degli Stati nazionali, feticcio ravvivato dal pacifismo assolutista, ci sia bisogno di una legge, un tribunale, una polizia. Cioè una forza legittima e proporzionata e trasparente: il contrario della potenza tracotante e smisurata e opaca della guerra.

I miei argomenti, come si vede, non hanno fin qui toccato la questione del governo: benché io legga con raccapriccio che Strada “brinderebbe alla caduta del governo” su quello che chiama il tema della guerra; ben che ascolti con amarezza i senatori che parlano di sè come Resistenti, e i loro tifosi che irridono alla “sindrome del governo amico”. Non l'ho toccata perché sono persuaso della loro sincerità spinta fino alla superstizione. Sono persuaso che voteranno, in più o meno degli otto saliti alle cronache, ignorando le conseguenze per il governo, e che nessun argomento sappia intaccare il loro partito preso. Del resto, la venerazione del "senza se e senza ma" esclude un confronto che possa portare a reciproci riconoscimenti. Se fosse vero il loro assunto da una parte l'inabissamento italiano in una guerra d'aggressione globale asservita agli Stati Uniti, dall'altra la tenuta di una maggioranza - nessun argomento terrebbe. Tanto meno gli argomenti pratici, come il regalo fatto al centro destra: essi deridono la "riduzione del danno” in cui vedono solo un miserabile espediente (strano, per chi ha dovuto occuparsi di tossicodipendenza), perché l'etica non viene a patti con la pratica. Con la logica però anche i principi più solenni dovrebbero fare i conti. E dunque, a che cosa servono, nell'Europa di oggi, le elezioni politiche, che cosa si va a fare in Parlamento? Non voglio spingere il sospetto nei confronti della "sinistra radicale" fino al folklore di immaginarla ancora persuasa che si vada in Parlamento per impedirgli di funzionare, spingere alla crisi della "democrazia borghese", e prepararle una soluzione sovietica non appena le masse saranno di nuovo mature (Qualcuno tuttavia parla ancora questa lingua morta). Resta, dichiarata da loro, la "questione di coscienza". Ebbene, se si riconosca, laicamente, semplicemente, che alle elezioni si partecipa, e in Parlamento si sta, per far governare una maggioranza contro l'altra, il desiderio di fare la rivoluzione o l'obiezione di coscienza devono trovarsi altri campi da gioco. Nelle elezioni politiche si gioca sul tanto una maggioranza contro l'altra. Non è in ballo il proprio ideale e nient’altro, la rivoluzione o la purezza della coscienza, l'assolutezza che non ammette termini di confronto, bensì il confronto fra quello che consente la propria maggioranza, e quello che assicurerebbe l'altra. Con l'altra Calderoli direbbe che i francesi sono negri musulmani e comunisti, ma da ministro. Con l'altra si avrebbe un filoamericanismo di principio (e un filoputinismo di fatto). Poco europeismo, poca autonomia, poca distinzione. Se davvero la coscienza personale osta insuperabilmente a un voto sul rifinanziamento della missione in Afghanistan, si può lasciare il proprio seggio al prossimo della lista, e tornare nei luoghi in cui l'assolutezza morale è di casa. Così si rispetterebbe il debito con la propria coscienza, e non si metterebbe a repentaglio quel governo per il quale la meta più uno, almeno, degli italiani ha votato, e con una cosi grande aspettativa. Non lo faranno, i senatori tanto applauditi nell'assemblea romana da diventare ostaggi di quegli applausi. E del resto hanno giustificazioni da accampare, in una maggioranza che a ogni pié sospinto vede spuntare una cresta pronta a cantare il proprio ricatto: O mi date il tal ministro o sottosegretario... O correggete la tale legge come piace a me... Canzone di tutti i giorni. In un paese normale, e in una democrazia dell’alternanza, tutti i partecipanti di uno schieramento dovrebbero attenersi alla premessa di non evocare mai la minaccia di far mancare la maggioranza. I loro rispettivi argomenti diventerebbero così argomenti, liberi, disinteressati, con vinti: altrimenti, sono piccoli ricatti. O grandi, dipende dalle conseguenze.

14 luglio 2006

Il 14 luglio dei pavloviani

“E’ evidente che la linea politica del governo su Israele per noi è addirittura più importante di quella sull’Afghanistan” questo dichiara Franco Giordano, il segretario di Rifondazione Comunista a pagina 4 di Repubblica di oggi, 14 luglio 2006. Più che esplicito Franco Giordano sembra essere pagato, forse da Calderoli, come in analoghe occasioni, davanti ad altrettanto incomprensibili manifestazioni di ostilità allo stato di Israele, ha affermato a chiare lettere Oliviero Diliberto.
Su cosa passa per Franco Giordano la “linea” del governo? Qual è il confine oltrepassato il quale Giordano non ci sta più? Su cosa Franco Giordano si alza e lancia l’appello del “boia chi molla”? Sui mille morti l’anno sul posto di lavoro? Sulle grandi e inutili opere che ancora si progetta di realizzare? Sul lavoro e l’avvenire negato a milioni di giovani? Sull’azzeramento della ricerca, dell’università, della scuola, della sanità? Si scandalizza Franco Giordano dell’appoggio e delle relazioni commerciali con stati e governi che affamano, torturano, schiavizzano i loro cittadini, dalla Cina al Sudan? Si preoccupa Franco Giordano per intere regioni in mano alla criminalità organizzata, per migliaia di cittadini che attendono un trapianto, per tutte le donne alle quali una legge recente ha negato la maternità? Ne parla con Venier, responsabile esteri del Pdci, che vuole cacciare gli ambasciatori di uno stato democratico? Forse la puerile concezione della politica che ha Venier non gli permette di comprendere che la cacciata di un ambasciatore è un atto di guerra?
Ha mai pensato Venier di rompere i rapporti con la Thailandia, dove migliaia di europei come lui comprano bambini per solleticare i loro sensi ormai stanchi?
Parleranno tra loro Venier e Giordano, - che si scandalizzano per i cinque missili di Israele in risposta ai cinque missili lanciati dagli Hezbollah -, dei milioni di morti africani, dei bambini soldato, delle bambine nei bordelli brasiliani? Si faranno quattro risate sui froci ammazzati negli stati arabi, sui prigionieri dei gulag cinesi? Apriranno una bottiglia per festeggiare sui giustiziati a Cuba, eterno baluardo dell’antiamericanismo d’accatto e di bandiera?

Sono questi i rappresentanti di parte della sinistra italiana che oggi 14 luglio - anniversario per tutti gli uomini liberi - sputano sulla giustizia, sulla democrazia, sui diritti umani.

Sono la vergogna, l’onta, il disonore di chi si batte, di chi paga, di chi muore per la libertà, la giustizia, l’uguaglianza.

L’altra sinistra, quella che non ha tradito, quella che non rinnega la sua tradizione, quella che sempre, in ogni momento, si schiera a difesa dell’umanità, della dignità dell’uomo, della giustizia sociale ha il dovere morale di distinguersi, di marcare la differenza, di prendere le distanze dagli avvoltoi dello spicciolo interesse politico e mediatico, dalle iene che banchettano sul voto obbligato di chi voleva liberarsi di Berlusconi e della sua circense corte e si ritrova ostaggio di banditi amorali.

12 luglio 2006

Giorgio Colli e Spinoza

Se non ho già parlato di Giorgio Colli in questo blog ho fatto male. E provo a rimediare. Per lunghi anni Colli cura, tra l'altro, una enciclopedia di autori classici per Boringhieri e per molti di questi scrive anche la prefazione alle opere. Queste sono state poi raccolte in un volumetto pubblicato da Adelphi con il titolo Per una enciclopedia di autori classici.

Qui voglio riportare quella dedicata all'Etica di Spinoza:

"L'Etica richiede lettori non pigri, discretamente dotati e soprattutto che abbiano molto tempo a loro disposizione. Se le si concede tutto questo, in cambio offre molto di più di quello che ci si può ragionevolmente attendere da un libro: svela l'enigma di questa nostra vita, e indica la via della felicità, due doni che nessuno può disprezzare.
Ogni filosofo vuol trovare un senso - ossia un'unità - del mondo; ma gli oggetti che deve considerare sono infiniti, e i nessi concettuali che deve stabilire tra di essi sono, se possibile, ancora più infiniti. Il vigore di un filosofo è misurato dall'ampiezza di questa rete, che egli getta sulle cose, tentando di afferrarle e di stringerle. Ma ciò che conta ugualmente, è la qualità del tessuto di questa rete. La bava del ragno dev'essere rilucente e uniforme, e tenue abbastanza da ingannare la preda. E' la forza dello sguardo, che stabilisce questa unità, lucida e avvolgente.
Per profondità di un filosofo, si intende appunto ciò, e dopo i greci, nessun filosofo è stato profondo nella misura di Spinoza. Chi si accinge a leggere l'Etica, si trova innanzitutto di fronte a difficoltà grandissime: le definizioni, gli assiomi, le proposizioni, gli scolii, si presentano come bastioni inespugnabili, quasi isolati e ostili gli uni agli altri. Ma approfondendo l'indagine, cioè scendendo nei cunicoli sotterranei di ciascun bastione, si scoprono i collegamenti. Per inoltrarsi nel buio di quelle gallerie, occorre possedere un cuore fermo, e un occhio notturno. I contrasti tra i pensieri spinoziani vanno attenuandosi, man mano che si segue centrifugamente la loro concatenazione. E chiunque si compiaccia di indugiare sull'incompatibilità di due proposizioni, dovrebbe ragionevolmente dubitare dell'ampiezza del proprio respiro intellettuale, prima che della coerenza di Spinoza. Perché il punto dove convergono i pensieri di costui - l'unità della sua visione - è sepolto in un abisso, e occorrono giorni e mesi di meditazione, per scavare sino in fondo il pozzo di ogni singola proposizione.
Se tale è la natura di Spinoza, a ben poco serve il collocarlo nel suo tempo, e studiarlo storicamente, indagando il nesso che lo lega ai filosofi precedenti, e ricercando le tracce del suo pensiero nella speculazione posteriore. Certo, egli si serve di molti concetti offerti dalla tradizione, ma li riempie dei suoi contenuti; e quando avremo stabilito i suoi presupposti culturali e i suoi influssi, continueremo a scivolare lungo la superficie di una sfera, in cui invece, come abbiamo detto, si tratta di penetrare sino al centro. D'altronde non ha senso chiederci che cosa sia vivo di lui oggi, perché l'unica risposta sincera è: nulla; tale risposta, anziché autorizzarci a trascurarlo, dovrebbe indurci a riprenderlo seriamente in considerazione. Perciò sono più stimabili, o almeno utili, i suoi denigratori che non i tiepidi e cauti ammiratori. Perché quelli fecero rumore intorno alle parole miti, ma terribili, che suggerivano agli uomini la liberazione dai miti della religione e della filosofia, dalla credenza nel libero arbitrio, dalla millenaria superstizione sul valore assoluto del bene e del male. Eppure, ancor oggi il bene e il male sono concetti assoluti, e il finalismo domina le menti degli uomini.
In Spinoza non vi sono fratture: la sua vita fu in armonia con il suo pensiero. L'uomo non si distingue dalla sua opera. E ancora, il problema della conoscenza non si divide dal problema morale. Così in ogni parte della sua opera. L'antitesi fra razionalismo e irrazionalismo, cui da secoli tutti soggiacciono, è guardata dall'alto, secondo la prospettiva del conatus. Il crepaccio che separa l'individuo dal tutto viene saldato, senza danno né per l'una né per l'altra parte. Attraverso la cosa singola si può giungere intuitivamente alla totalità: la tesi mistica è dimostrata con la ragione.
Spinoza è un'unità, mentre il mondo moderno è una molteplicità frantumata. La voce di Spinoza giunge a noi da lontano, sommessa; non chiede di essere ascoltata. L'Etica ha la fermezza di un tempio, in un paesaggio disabitato: se sapremo contemplarlo, penetrare devoti nel suo interno, conosceremo il divino."

dalle fregole missionarie alle fregole e basta

La signora BX (come spiritosamente l’ha soprannominata un lettore di questo blog) è passata dalle fregole missionarie alle fregole e basta. E mettendo – grazie a dio – da parte ogni velleità umanitaria lenisce le sue pene in un paradiso sessuale per signore. Eh si; ha deciso di partire per le vacanze, e che i poveri bambini/profughi/prigionieri bombardati/feriti/arrestati se la devono cavare senza il suo aiuto. (immagino comunque che non farà mancare la sua solidarietà sul suo blog, se trova un internet point).

Al di là delle scelte personali, e a questa francamente non mi sento di non plaudire, (divertiti BX e torna magra e soddisfatta. Ti aspetta un anno pesante, durissimo, devi essere in forma smagliante, recuperare tono e cinismo e palle, qui i moloch non aspettano altro che la tua tenera carne) la sua partenza mi ha aperto un mondo. E all’aperitivo/cena che ha offerto alla partenza – per altro frettolosa e inaspettata – le signore da lei convenute mi hanno aperto un mondo su cui vale la pena di sprecare qualche minuto a riflettere. Mondo del quale ignoravo del tutto l’esistenza (e se vi sembra poco credibile non so che farci, ma vi assicuro che è così); parlo dei “paradisi sessuali” per signore, diciamo, mature. Pare che Giamaica, Capo Verde, Marocco, Egitto e Cuba siano tra le mete preferite delle single europee; dico pare perché in effetti, a parte i discorsi che ho sentito l’altra sera non mi risulta niente altro, se avete informazioni, siti, link che affrontano questo argomento…

10 luglio 2006

Che meraviglia














Che meraviglia vedere quest'uomo invece dell'altra faccia.
Grazie ai 23 e agli italiani all'estero.

04 luglio 2006

Milano Marittima o dell'ira violenta

Le mamme. Le mamme con i passeggini. Sui passeggini i bambini, dai 25 chilogrammi in su. Potrebbero camminare senza problemi e invece mentre la mamma ti arrota le caviglie con le ruote del passeggino - che pare un SUV, ha tre gradi di ammortizzazione, freni a disco, airbag e capote - loro ti guardano obesi e sprezzanti. Infelici già a tre anni.

Torno in albergo. L'unico internet point sta a km. Meno male che sono arrivata ieri sera e oggi pomeriggio me ne vado.