È sola da ottobre; sua figlia è partita e l’uomo che frequentava si è defilato; probabilmente spaventato dalla prospettiva di non poterla più dividere con un simulacro di famiglia, che almeno quello la figlia era.
Non è stato un pranzo piacevole; malgrado lei sia una persona normalmente gradevole; a dire il vero non ho nemmeno capito perché ci siamo incontrate; lavoro a parte abbiamo avuto pochissimi contatti personali e anche poco in comune, se si esclude la frequentazione di internet in varie forme. Ho vagamente intuito che forse ero l’unica persona che conosceva che non era al corrente del suo tracollo e della sua depressione. Forse pranzare con me è stato un tentativo di recuperare qualcosa che non c’è più, un momento, una serenità ormai svanita. Ma non sono la persona adatta per queste cose.
È un post strano questo, per dire a qualcuno alcune considerazioni che non sono riuscita a fare di persona.
Oggi sono stata a pranzo con una ex collega. Ha qualche anno più me (non moltissimi), è divorziata e al momento vive sola perché l’unica figlia sta facendo l’Erasmus in Spagna. Non la vedevo da qualche mese, per la precisione dal luglio scorso; è ingrassata. Non è mai stata magra, diciamo che – fino a qualche mese fa – si poteva definirla giunonica, ma adesso è proprio soprappeso. Fuma moltissimo, più di quanto ricordassi; fumo anche io, ma devo ammettere che il suo ritmo mi ha stupito. E anche il modo, nervoso, frettoloso, l’ultima boccata tirata come la prima.
È depressa, mi ha detto; ma si capiva.
[Ha un blog, e forse arriverà al mio, visto che sconsideratamente mi sono lasciata scappare che anche io ne tengo uno. In questo caso F.M. non rimanere ferita, si parla di me in questo post più di quanto non si parli di te; sei un pretesto.]
Perché non sono la persona adatta? Perché mi spaventa il dolore, e ancora di più mi spaventa un dolore che vedo troppo vicino a me, che vuole toccarmi, che può coinvolgermi.
La guardavo mentre parlava, scontenta della scuola, della figlia, cinica e amara nei confronti degli uomini – tutti stronzi e maschilisti.
Non mi soffermo quasi mai sulle espressioni del viso altrui, per formazione e sensibilità sono molto più attenta a ciò che una persona dice piuttosto che al linguaggio del corpo, ma non potevo fare a meno di scrutare le sue smorfie mentre parlava, e il modo con cui spegneva la sigaretta mi faceva male per la sofferenza che emanava.
Insomma la guardavo, e consideravo che non mi era mai piaciuta molto.
Intendiamoci, nulla di che, solo che è quel tipo di insegnante che non si vorrebbe avere, o meglio, quel tipo di insegnante che scopri, una volta cresciuto, che non avresti voluto avere. Quelli che entrano in classe con un mai sopito istinto di competizione con i loro studenti, sempre vogliosi di stupirli con effetti speciali; una vita rutilante, la battuta pronta, l’umorismo peregrino e la smania di complicità. Chi insegna o ha insegnato sa di cosa parlo. Sono quelli che conoscono la storia esistenziale dei loro allievi, quelli che li ascoltano comprensivi quando piangono per un amore perduto, quelli che si fanno carico delle difficoltà e che allo stesso tempo picchiano durissimi giudizi sugli studenti (sempre pigri, sempre incapaci, sempre cazzoni). Alternano momenti di inutile, quando non dannosa, vicinanza affettiva – a volte anche un po’ torbida – a momenti in cui tranciano a fette i poveri malcapitati. Io ho sempre visto l’insegnamento, per quel poco che l’ho praticato, come un lavoro serio, a volte un po’ noioso, ma lavoro, non scelta esistenziale dettata dall’inanità. Lavoro, non ripiego. Lavoro, non compensazione per una vita senza slanci o passioni.
Mangiava in fretta, lamentandosi della scuola, della città, del clima, dell’arroganza e della grettezza della gente. Devo ammetterlo, ho cercato una volta di interrompere le geremiadi, ho tentato solo per un momento di lanciare l’ipotesi che forse il brutto momento che stava attraversando era l’unico responsabile del suo umor nero e della sua apocalittica visione del mondo.
Ho desistito. Perché mi sono accorta, mentre cercavo le parole per interromperla, che avrei mentito – che stavo mentendo. E ho taciuto.
Che avrei dovuto dirle? Avrei potuto solo darle ragione.
E a poco sarebbero servite le spiegazioni sociologiche, culturali, sociali.
Ha 45 anni, fa un lavoro che non le piace più, che non le è mai piaciuto perché sognava altro, e a quel lavoro non si è arresa solo per ragioni economiche ma anche perché era l’unico che le avrebbe sempre garantito un palcoscenico, per quanto con un pubblico non altamente selezionato.
In questa società e in questa cultura se hai 45 anni, sei donna, sei single e ti capita anche un lavoro un po’ di merda sei finita. È vero, la gente ti evita, non è disposta a concederti un momento del suo tempo, anzi, vede con allarme il fatto stesso che tu abbia del tempo. Se poi sei stata una donna piacente, e lei lo era, non ti capaciti del fatto che sei uscita dal gioco del corteggiamento e dell’amore. E allora non sei tu a non essere più piacente ma loro stronzi e maschilisti.
Ma ha anche torto.
Ha il torto dell’arroganza della gioventù che pensava eterna. Ha il torto dell’incapacità di riconoscere i suoi limiti intellettuali e sentimentali. Ha il torto di continuare a cercare un pubblico che non la vuole, che la vede come un oggetto da circo: un giorno che gioca a fare la vamp intellettuale e il giorno dopo con le stimmate dell’autocommiserazione.
E ho improvvisamente capito che in quel momento ero il suo pubblico, che stava cercando di recuperare se stessa cercando l’approvazione di una persona che riteneva in qualche modo sua pari e a sé simile.
Non ci sono riuscita. Avevo due possibilità. Avrei potuto essere solidale o dirle parte delle cose che ho scritto qui.
Avrei potuto concordare con le sue parole e con il suo stato d’animo o cercare di scuoterla.
Ho finto di non capire la domanda che trapelava da ogni frase, che emergeva da ogni gesto.
Non potevo fingere di esserle vicina, non lo ero e non lo sono, per caso prima che per scelta.
Ma non mi sono nemmeno assunta il compito sgradevole di squarciare il velo di maia.
E non solo perché mi pareva inutile, non ci sarei comunque riuscita, ma anche perché non ne avevo la minima voglia. Non avevo voglia di mettere in gioco me per scoprire il suo gioco, non sarebbe stato divertente.
Sarebbe stato come fare una sfuriata a un paio di studenti, che non possono far altro che abbassare la testa e tacere.
Che competizione sarebbe stata quella di mettere a confronto la mia lettura di realtà con la sua? Sarebbe semplicemente stato da parte mia un gesto di inutile arroganza.
E così, ho tenuto un profilo conviviale, cercando di parlare di politica, di film, delle poche conoscenze in comune. E appena la decenza l’ha reso possibile me ne sono andata con una scusa.
Spero che per l’estate trovi una colonia di gatti, o la vedo grigia.
Non è stato un pranzo piacevole; malgrado lei sia una persona normalmente gradevole; a dire il vero non ho nemmeno capito perché ci siamo incontrate; lavoro a parte abbiamo avuto pochissimi contatti personali e anche poco in comune, se si esclude la frequentazione di internet in varie forme. Ho vagamente intuito che forse ero l’unica persona che conosceva che non era al corrente del suo tracollo e della sua depressione. Forse pranzare con me è stato un tentativo di recuperare qualcosa che non c’è più, un momento, una serenità ormai svanita. Ma non sono la persona adatta per queste cose.
È un post strano questo, per dire a qualcuno alcune considerazioni che non sono riuscita a fare di persona.
Oggi sono stata a pranzo con una ex collega. Ha qualche anno più me (non moltissimi), è divorziata e al momento vive sola perché l’unica figlia sta facendo l’Erasmus in Spagna. Non la vedevo da qualche mese, per la precisione dal luglio scorso; è ingrassata. Non è mai stata magra, diciamo che – fino a qualche mese fa – si poteva definirla giunonica, ma adesso è proprio soprappeso. Fuma moltissimo, più di quanto ricordassi; fumo anche io, ma devo ammettere che il suo ritmo mi ha stupito. E anche il modo, nervoso, frettoloso, l’ultima boccata tirata come la prima.
È depressa, mi ha detto; ma si capiva.
[Ha un blog, e forse arriverà al mio, visto che sconsideratamente mi sono lasciata scappare che anche io ne tengo uno. In questo caso F.M. non rimanere ferita, si parla di me in questo post più di quanto non si parli di te; sei un pretesto.]
Perché non sono la persona adatta? Perché mi spaventa il dolore, e ancora di più mi spaventa un dolore che vedo troppo vicino a me, che vuole toccarmi, che può coinvolgermi.
La guardavo mentre parlava, scontenta della scuola, della figlia, cinica e amara nei confronti degli uomini – tutti stronzi e maschilisti.
Non mi soffermo quasi mai sulle espressioni del viso altrui, per formazione e sensibilità sono molto più attenta a ciò che una persona dice piuttosto che al linguaggio del corpo, ma non potevo fare a meno di scrutare le sue smorfie mentre parlava, e il modo con cui spegneva la sigaretta mi faceva male per la sofferenza che emanava.
Insomma la guardavo, e consideravo che non mi era mai piaciuta molto.
Intendiamoci, nulla di che, solo che è quel tipo di insegnante che non si vorrebbe avere, o meglio, quel tipo di insegnante che scopri, una volta cresciuto, che non avresti voluto avere. Quelli che entrano in classe con un mai sopito istinto di competizione con i loro studenti, sempre vogliosi di stupirli con effetti speciali; una vita rutilante, la battuta pronta, l’umorismo peregrino e la smania di complicità. Chi insegna o ha insegnato sa di cosa parlo. Sono quelli che conoscono la storia esistenziale dei loro allievi, quelli che li ascoltano comprensivi quando piangono per un amore perduto, quelli che si fanno carico delle difficoltà e che allo stesso tempo picchiano durissimi giudizi sugli studenti (sempre pigri, sempre incapaci, sempre cazzoni). Alternano momenti di inutile, quando non dannosa, vicinanza affettiva – a volte anche un po’ torbida – a momenti in cui tranciano a fette i poveri malcapitati. Io ho sempre visto l’insegnamento, per quel poco che l’ho praticato, come un lavoro serio, a volte un po’ noioso, ma lavoro, non scelta esistenziale dettata dall’inanità. Lavoro, non ripiego. Lavoro, non compensazione per una vita senza slanci o passioni.
Mangiava in fretta, lamentandosi della scuola, della città, del clima, dell’arroganza e della grettezza della gente. Devo ammetterlo, ho cercato una volta di interrompere le geremiadi, ho tentato solo per un momento di lanciare l’ipotesi che forse il brutto momento che stava attraversando era l’unico responsabile del suo umor nero e della sua apocalittica visione del mondo.
Ho desistito. Perché mi sono accorta, mentre cercavo le parole per interromperla, che avrei mentito – che stavo mentendo. E ho taciuto.
Che avrei dovuto dirle? Avrei potuto solo darle ragione.
E a poco sarebbero servite le spiegazioni sociologiche, culturali, sociali.
Ha 45 anni, fa un lavoro che non le piace più, che non le è mai piaciuto perché sognava altro, e a quel lavoro non si è arresa solo per ragioni economiche ma anche perché era l’unico che le avrebbe sempre garantito un palcoscenico, per quanto con un pubblico non altamente selezionato.
In questa società e in questa cultura se hai 45 anni, sei donna, sei single e ti capita anche un lavoro un po’ di merda sei finita. È vero, la gente ti evita, non è disposta a concederti un momento del suo tempo, anzi, vede con allarme il fatto stesso che tu abbia del tempo. Se poi sei stata una donna piacente, e lei lo era, non ti capaciti del fatto che sei uscita dal gioco del corteggiamento e dell’amore. E allora non sei tu a non essere più piacente ma loro stronzi e maschilisti.
Ma ha anche torto.
Ha il torto dell’arroganza della gioventù che pensava eterna. Ha il torto dell’incapacità di riconoscere i suoi limiti intellettuali e sentimentali. Ha il torto di continuare a cercare un pubblico che non la vuole, che la vede come un oggetto da circo: un giorno che gioca a fare la vamp intellettuale e il giorno dopo con le stimmate dell’autocommiserazione.
E ho improvvisamente capito che in quel momento ero il suo pubblico, che stava cercando di recuperare se stessa cercando l’approvazione di una persona che riteneva in qualche modo sua pari e a sé simile.
Non ci sono riuscita. Avevo due possibilità. Avrei potuto essere solidale o dirle parte delle cose che ho scritto qui.
Avrei potuto concordare con le sue parole e con il suo stato d’animo o cercare di scuoterla.
Ho finto di non capire la domanda che trapelava da ogni frase, che emergeva da ogni gesto.
Non potevo fingere di esserle vicina, non lo ero e non lo sono, per caso prima che per scelta.
Ma non mi sono nemmeno assunta il compito sgradevole di squarciare il velo di maia.
E non solo perché mi pareva inutile, non ci sarei comunque riuscita, ma anche perché non ne avevo la minima voglia. Non avevo voglia di mettere in gioco me per scoprire il suo gioco, non sarebbe stato divertente.
Sarebbe stato come fare una sfuriata a un paio di studenti, che non possono far altro che abbassare la testa e tacere.
Che competizione sarebbe stata quella di mettere a confronto la mia lettura di realtà con la sua? Sarebbe semplicemente stato da parte mia un gesto di inutile arroganza.
E così, ho tenuto un profilo conviviale, cercando di parlare di politica, di film, delle poche conoscenze in comune. E appena la decenza l’ha reso possibile me ne sono andata con una scusa.
Spero che per l’estate trovi una colonia di gatti, o la vedo grigia.
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