Ci siamo lasciati qualche giorno fa con una prima parte che apriva il discorso su "blog e identità", prima di continuare è bene definire i termini: se per "blog" in parte l'abbiamo fatto, per "identità" la questione è aperta e spinosa assai, anzi Spinoza assai.
Il buon Baruch è uno dei miei numi olimpici, una fiaccola nel buio, assieme a Nietzsche (come si evince dal sottotitolo del mio blog), a Machiavelli e a qualcun altro che svelerò se continua la mia avventura di blogger.
Nel frattempo, sia Spinoza che Nietzsche in tema di identità e di ricerca della stessa sono certamente compagni illuminanti, non solo per quel che riguarda la loro produzione filosofica ma anche - e come potrebbe essere diversamente? - anche nelle vicende esistenziali.
Non ho intenzione di annoiarvi con lunghe dissertazioni intorno alla questione “identità”, considerato che è un problema, per molti versi, al centro del dibattito filosofico di questo secolo - e non solo, se diamo retta a Michel Foucault.
Diamo per acquisito, per il momento, che la costruzione identitaria ha a che fare con la definizione di sé e degli altri, con la ricerca di un'ancora del sé che in taluni casi – da non generalizzare – sconfina nella costruzione di un reale in cui sia possibile proiettare il male “fuori da sé”.
In questa accezione la costruzione di una identità che abbia, almeno formalmente, tutti i requisiti per “resistere” al mondo passa attraverso – in primo luogo – a una contrapposizione che permetta all'io di dare confini e limiti ben precisi al male e al dolore. Se questa contrapposizione viene vissuta come appartenente alla “polis”, diviene giocoforza necessario - perché il rischio, quasi una certezza, di perdersi è immensamente alto - proiettare male e dolore su chi viene strutturato come “ancora più inferiore” (perdonatemi l'italiano che grida vendetta).
Immaginate di appartenere a una minoranza che non viene percepita a prima vista come dominante, che so, l'universo femminile. [So bene che le cose non stanno in questi termini, ma qui vogliamo esaminare il punto di vista, la percezione, il vissuto di una identità costruita all'interno di un blog].
Immaginate quindi di appartenere a una minoranza di genere, quello femminile appunto. Immaginate di essere giovani donne nei primissimi anni 80; in un periodo in cui il mondo italico si divideva tra il rampantismo degli yuppies – che pagavano salatissimo in termini esistenziali la loro fulgida (?) immagine di successo – e quel poco di libertarismo rimasto degli anni '70, appena sfiorato per limiti anagrafici. Immaginate di essere quindi giovani donne, magari appartenenti a una minoranza all'interno di una minoranza; che so, donne e gobbe o donne e racchie o donne e nere.
A quel punto non siete più donne e qualcos'altro. Ma siete solo qualcos'altro: siete nere, siete gobbe, siete racchie. E basta. Niente e nessuno vi concederà mai un attimo di tregua, non potete mai dimenticare quella parte che ha preso il posto del tutto. E come una pianta costretta ad assumere le forma che il luogo in cui cresce le concede anche la vostra mente, anche la vostra sensibilità, anche il vostro “io” - quell'ospite in casa propria - assume la forma che il mondo vuole. (2. continua).
2 commenti:
> Diamo per acquisito, per il momento, che la costruzione identitaria ha a che fare con la definizione di sé e degli
altri
Ecco, una delle caratteristiche che - non a caso - sento maggiormente mie, è il totale senso di non contrapposizione della mia identità personale a quella altrui. Percepisco l'essere me stesso come accidentale, cosa che non mi impedisce affatto di avere un forte senso dell'io.
Devo farci un post, sulla mia percezione di identità. Sarebbe un'ottima occasione per svillaneggiare Kriepke e saltare di palo in frasca, da buon discendente di una razza arboricola.
fb: in effetti con "diamo per acquisito per il momento" volevo intendere che ho tutta l'intenzione di tornarci sopra. L'accidentalità, ne sono convinta, non preclude affatto un forte senso dell'io. e sono fortemente interessata a leggere un tuo intervento sull'argomento.
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