Tra filosofia morale ed etica passano una serie di differenze che sarebbe lungo e inutile elencare, anche perché il termine "etica" sta assumendo significati che prima non aveva. Uno di questi è quello che, in qualche modo, ne sottolinea l'aspetto "pratico". Ecco così le etiche pratiche: etica della comunicazione, etica della scienza, etica dell'economia, e via discorrendo.
Così, nelle lezioni di etica dell'economia spesso una parte del lavoro didattico consiste nel rendere consapevoli gli studenti del loro percorso etico e della morale che sottende le loro etiche pratiche (o il giudizio etico delle azioni). Capita quindi di porre domande quasi banali, alla ricerca di quel filo che possa, in qualche modo, farli riflettere sulla genesi filosofica e culturale delle loro scelte. Trattandosi di studenti del tutto digiuni di filosofia (nel migliore dei casi hanno qualche vaga rimembranza liceale) è spesso compito difficile, per quanto entusiasmante.
E se nella stragrande maggioranza ritengono eticamente inaccettabile (al di là del reato) rapinare una banca armi in pugno (a parte qualche inconsapevole brechtiano) nondimeno hanno pochi dubbi nell'affermare che difendere la propria casa violata da qualche ladruncolo è azione che può e deve (sic!) contemplare anche l'omicidio. La riflessione parte da qui, dal convincimento pressochè generale che rubare soldi altrui sia riprovevole, ammazzare per salvare i propri no. Messi a confronto con il valore immediato, cominciano - vivaddio - i primi dubbi; uccidere per rubare cinquemila euro no, e uccidere per difendere cinquemila euro però nemmeno; i dubbi persistono quando si sale con la cifra. Arrivati a un milione di euro qualcuno comincia a cedere, e esprime la possibilità di essere in grado di compiere un'azione estrema per impadronirsene o per difenderlo. Ma non se si tratta di un amico, o di un familiare, o del familiare di un amico. Insomma, non si uccide chi si conosce, almeno non per interesse. Da qui un altro passo: quando diviene necessario uccidere? La prima risposta è sempre: quando è necessario salvare la nostra vita. Ma qui è imperativo ricominciare i distinguo; la necessarietà deve essere obiettiva, ovvero deve essere riconosciuta. E' necessario - per salvare la nostra vita - uccidere chi ci naccia verbalmente di morte? O chi da lontano fa roteare un bastone? La risposta prevalente è - vivaddio - no. E allora quando? quando l'altrui intenzione diviene azione priva di equivoco interpretativo. Quando, dopo la dichiarazione verbale, l'altrui gesto è evidente, chiaro e distinto (per usare termini cartesiani).
Non esiste, a mio modo di vedere etica della guerra; e con questa dichiarazione mi rendo conto di sollevare non poche obiezioni. Ma devo ammettere che, nella barbarie della guerra, i distinguo tra diciottenne in divisa - lecitamente ammazzabile - e diciottenne senza divisa, inerme civile che deve essere preservato ad ogni costo pena l'esecrazione universale, mi paiono - laddove non tragicamente ridicoli - eticamente inaccettabili. L'idea che si possa concepire un distinguo tra uccisione auspicabile e lecita e uccisione deprecabile e illecita mi pare faccia parte di mascheramento (in termini nicciani) del reale che deve essere genealogicamente svelato.
Non c'è, a mio modo di vedere, etica nella decisione di entrare in guerra. Perchè l'etica si dà solo quando esiste alternativa, quando possiamo scegliere cosa fare, e di questa scelta assumiamo consapevolmente le responsabilità conseguenti. Scegliere di entrare in guerra, scatenare una guerra, è immorale.
La guerra, gli uomini etici e le loro nazioni, la subiscono sempre, anche quando la cominciano, perchè la guerra, così come la legittima difesa, è l'unica alternativa alla morte. E in questo caso, solo in questo caso, si rende necessaria. Necessaria in linguaggio filosofico, laddove "necessario" ha come significato "può essere solo così, e non in altro modo".
Questo fa cadere ogni ipocrita distinzione tra civili e combattenti. Quella ipocrita convinzione che porta molti a pensare che l'auspicio migliore possibile sia una guerra nella quale muoiono solo coloro che portano una divisa. E in questo caso allora sarebbe possibile ricorrere alla guerra per dirimere controversie su confini, petrolio, materie prima and so on.
Come se la morte di un diciottenne senza divisa fosse davvero il MALE.